Rosanna ha 43 anni. Suo figlio Matteo frequenta gli scout del suo quartiere, un gruppo nato da qualche anno per far fronte alle numerose richieste dei ragazzi della zona e sempre in sofferenza per i pochi capi. Così Rosanna ha deciso quest’anno di dare una mano. Non che sia facile, tra il lavoro, il marito e gli altri due figli più piccoli. Non che abbia molto tempo libero in effetti, ma l’idea che il gruppo in cui Matteo si è inserito così bene possa chiudere e il sapere che la propria offerta di servizio potrebbe cambiare le cose la punzecchia da un po’. Ma non è solo questo, da cristiana praticante, con i suoi dubbi e le sue debolezze, ma di certo in cammino, è da tempo che sente di voler fare qualcosa per gli altri. Questa realtà dello scautismo, con i suoi linguaggi particolari, le atmosfere, l’affascina tanto, ed è un mondo che la avvicina a suo figlio.
Francesca ha preso la partenza l’anno scorso. Studia medicina, recita in una compagnia teatrale, le piace fare tutto bene. Ha preso la partenza perché ha fatto suoi i valori dello scautismo. Ama la pedagogia scout, e le esperienze di servizio in unità in questi anni le hanno dato conferme positive sulla relazione con i ragazzi. Vuole fare servizio ma è dura conciliare tutto, anche perché le piace fare le cose per bene, ma nonostante tutto c’è, perché ci crede con tutto il cuore.
Claudio è sempre stato scout. Almeno per quello che ricorda, e se anche c’è stato un tempo in cui non era uno scout, è un tempo che non ricorda più. Entrato da lupetto, ha preso la partenza l’anno scorso e non ha nemmeno dovuto pensare a quale servizio avrebbe potuto fare dopo la partenza. Non poteva essere che questo.
Rosanna, Claudio e Francesca hanno iniziato quest’anno la loro avventura in comunità capi. Non senza timori, dubbi e piccole crisi.
Rosanna ha paura di non essere all’altezza, che non capirà mai la differenza tra Coca e Conca, o il significato di sigle come IABZ, PE, PdC. Ha paura che prima o poi il marito, che adesso l’ha incoraggiata, tirerà fuori una frase come “non sei stufa di giocare?”.
Francesca ha paura di non riuscire a conciliare tutto, di rimanere indietro con gli esami per via dei numerosi impegni scout, ha paura che lo scautismo la rallenti nel programma della sua vita, e subito dopo si sente in colpa per aver pensato questo.
Claudio non ha particolari paure. Ogni tanto però una si affaccia. E se fosse rimasto in comunità capi solo per abitudine?
Rosanna, Claudio e Francesca sono i nostri tirocinanti. Quelli che a settembre sono venuti alla prima riunione di comunità capi portando con sé il proprio entusiasmo e le loro paure, il loro desiderio di esserci e il loro bisogno di cura, come piantine da innaffiare e concimare.
Portano tanti talenti, esperienza di vita, cuore, intelligenza, voglia di andare a fondo nelle cose, amore per lo scautismo e senso di appartenenza.
Sono venuti con coraggio, perché diciamocelo, ci vuole sempre più coraggio a scegliere di fare il capo scout.
Ognuno di noi capi ha una responsabilità nei loro confronti. Non è facile mettersi in gioco da adulti, soprattutto per chi non è abituato a giocare questo gioco, un gioco dove per esempio non si ha timore delle parole dette dal fratello per aiutare a migliorarci, dove è continuo il confronto/scontro e dove a volte dobbiamo fare un passo indietro per l’obiettivo comune che ci sta a cuore. Un gioco dove vengono fuori i nostri limiti a volte, e ci fanno paura, ma dove la fiducia reciproca ci fa pian piano capire che il nostro limite ha poco significato perchè siamo in una squadra, dove ognuno mette in gioco le proprie risorse, e contano quelle delle squadra, più che del singolo. Un gioco che chiede impegno, continuo, costante, ma che dà tanto e non solo in termini di soddisfazione per qualcosa di bello che si è fatto per gli altri. Un gioco che fa crescere come persone, che dà spessore, grazie al continuo mettersi in gioco, alla cura della propria vita di fede, come un giardino prezioso, a volte prima trascurato.
Il tirocinio è fatto di tappe (il CFT, la formazione in comunità capi e negli staff di unità, gli eventuali incontri di Zona), dove certamente ci sono alcune figure di riferimento con una responsabilità speciale (il capogruppo, il capo unità della branca in cui il tirocinante fa servizio, la zona con gli Incaricati alla Formazione capi dove presenti e gli IABZ delle pattuglie a cui i tirocinanti partecipano). Mediante questo percorso i capi che entrano in comunità capi impareranno a conoscere e far proprio il Patto associativo, a scrivere il progetto del capo, ad acquisire i rudimenti della nostra Associazione, capire come funziona per grandi linee la vita di unità e soprattutto a cogliere l’intenzionalità educativa che c’è dietro all’organizzazione delle attività. Questa è in un certo senso “informazione”. A noi sta a cuore la “formazione”, che a tutto questo aggiunge qualcosa in più: è il sentirsi parte di qualcosa, di acquisire man mano consapevolezza, sentirsi sempre più a proprio agio e capaci, e perché no, anche un po’ protetti da chi ha le spalle un pochino più larghe, una sensazione che a volte è bello provare anche da adulti, per poi percepire man mano di essere non più solo operai ma veri e propri artigiani. Da lì, basta poco perché giunga la consapevolezza che il tempo del tirocinio è già un ricordo.
Perciò l’accoglienza dei tirocinanti è soprattutto un impegno di comunità capi. Una responsabilità di tutti, una soddisfazione per tutti. E arriverà di certo quella sensazione bella, alla fine dell’anno di tirocinio, quasi voglia di fare una grande festa di comunità capi, se quei nuovi capi che bussano alla
porta della nostra comunità li sentiamo davvero come un dono. Allora ci sentiremo tutti doni reciproci.
Dedicato a Marta, che tanto del suo prezioso tempo ha dedicato ai tirocinanti.
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