Nuovi spazi di partecipazione 

di Marco Gallicani 

 

L’ultima volta che sono stato all’assemblea dei capi della mia Zona c’erano 9 gruppi su 15. Non eran venuti perché il sabato pomeriggio devono fare attività e la domenica facevano altro, che non si viva mica di solo scautismo. E il vecchio incaricato di branca L/C è stato “costretto” a rimanere per un altro mandato, l’ennesimo. Direte voi: sarà una crisi dell’epoca nostra.

Sui 40 mila cittadini ateniesi del 450 a.c., circa 6 mila partecipavano, quando andava bene, spinti in strada dalla polizia urbana all’Ecclesia, l’assemblea popolare dove si decideva e si proponeva la gestione del bene comune. La polizia urbana tirava delle corde piene di colore rosso in fondo alle strade che portavano all’assemblea per riconoscere chi colorandosi di rosso provava a scappare dalla votazioni. I colorati non ricevevano le 2 dracme giornaliere previste per chi partecipava al processo istituzionale.

La scarsa partecipazione dei cittadini ai processi istituzionali democratici, che siano elezioni o referendum o deliberazioni di un collettivo qualsiasi, è antica come l’uomo stesso, o per lo meno come la scelta democratica. E dell’uomo, come la democrazia, segue gli umori, assumendone l’andamento dinamico e fluido, seguendo la società che lo incarna ed esasperandone limiti e potenzialità. Ma è un contesto sul quale bisogna saper ragionare, che da giovani si tende a minimizzare, mentre da vecchi ad istituzionalizzarlo.

Dice il mio fruttivendolo che la gente non vota più come prima perché non sa più bene cosa scegliere, perché le proposte tendono a uniformarsi, o comunque a essere presentate come uniformate, e poi i partiti non se li fila più nessuno. Lo dice in dialetto, ma ha ragione e quel che pensa il mio fruttivendolo quasi combacia con il pensiero dei politologi più accreditati. Io aggiungo che la gente non partecipa più perché non ha la sensazione di essere decisiva, o comunque importante. Nessuno glielo dice più, se non quando si devono scegliere le poltrone.

E infatti il calo dei numeri è sottolineato solo nelle occasioni elettorali, clamorosamente in picchiata dopo Tangentopoli e l’inizio della Seconda Repubblica. Fino all’inizio degli anni ‘90 il tasso di partecipazione elettorale era poco sotto il 90%.

Una perdita di autorevolezza che a cascata ha colpito tutti i corpi intermedi, facendo loro perdere quell’importanza che gli aveva attribuito il ‘900, accelerando notevolmente con la crisi economica di fine 2007. Una crisi soprattutto sociale, una conseguenza di una globalizzazione inevitabile ma gestita malissimo. Gestita confidando che la globalizzazione stessa avrebbe risolto i suoi problemi, che pure erano noti. E qualcuno, subito etichettato come no global, li aveva anche studiati, avevano provato ad avvisarci, tutti.

Ma non li abbiamo ascoltati, nemmeno un po’, e con lo scoppio della crisi “questa globalizzazione” ha creato enormi diseguaglianze (tutte, non solo quelle di conto corrente) tra chi gode appieno della dimensione planetaria ormai completa e chi invece la globalizzazione la subisce soltanto e può usare solo i social per provare ad interpretarla. Una distanza che ha fatto crescere la rabbia, perché ovviamente internet e le sue promesse non hanno garantito a tutti un bel niente e hanno invece creato una deformante e diffusa frustrazione che si è aggrovigliata e che rischia di non lasciarci uscire mai più.

Quando il futuro ti appare irrimediabilmente incerto è normale che il dolore ti porti verso la chiusura, la protezione di quel (poco) che credi di avere. Così poi a volte succede che la gente a votare ci va anche e succedono disastri come in Inghilterra.

Anche la partecipazione può avere molti livelli. Soprattutto in un’epoca dove gli strumenti sono sovrabbondanti. Quando abitavo coi miei non andavo alle assemblee di condominio, ma ora si perché la casa è la mia. Non vado tutte le volte e qualche volta quando vado non sono molto propositivo, ma ci sta. Quando non avevo figli facevo il capo scout quasi tutte le sere, quasi. Ora organizzo cacce francescane in salotto.

Servirebbero – la richiesta è tutta politica, nel senso più generoso del termine – nuovi spazi di socialità, posti dove tutti possano essere esperti di qualcosa (io tutte le volte che devo montare una maledetta mensola chiamo mio fratello). Perché il contrario di esperti è incompetenti. Spazi nuovi, non la riproposizione nostalgica di quelli vecchi, dove scambiarsi informazioni ed esperienze, e così aggirare il problema dell’informazione ridicola che abbiamo oggi e dare un corpo alle idee, chiederne testimonianza.

Voglio dire, ad esempio, che forse l’Erasmus potremmo farlo fare a tutti i ragazzi di quinta superiore, non solo a chi può permettersi di aspettare un anno per laurearsi. Così magari qualcuno si accorge dal vivo che oggi in Europa ci sono barriere per 470 km, quattro volte i 106 km del Muro di Berlino. Quattro volte tanto.

Vivere questi spazi è una gran fatica, e serve una gran pazienza perché l’ingaggio (in inglese suona meglio: engagement) è la molla più difficile da scatenare, simile all’amore, o alla fede… che sono tutte attività in perdita, di affidamento. Ma a differenze di queste due cambia in continuazione.

Forse l’approccio giusto alla democrazia – ovunque, tra gli scout come al Parlamento – dovrebbe essere il servizio, ma non al proprio ego. Forse potremmo cominciare a premiare le persone che fanno diversamente, non solo di più, e farlo tutti quanti insieme perché la democrazia, come l’uomo, è un fine, non un mezzo.

Leggi per intero “Partecipare“, il numero di PE da cui è tratto questo articolo.

[foto di Francesco Mastrella]

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