Cosa questa quarantena può insegnare al nostro essere educatori scout
Mi sembra d’obbligo iniziare con un mea culpa collettivo. Riconoscere e condividere i nostri limiti ci mette nella condizione di poter essere fratelli, accomunati dallo stesso continuo inciampare. Come all’inizio di ogni messa, la prima cosa da fare è riscoprirci comunità nell’essere tutti fondamentalmente imperfetti. Questa quarantena ci ha messo di fronte, come scout, al nostro limite più grande: non essere in grado di “stare”. “Fare”, è questa la nostra parola. Siamo irrimediabilmente legati a quelle maniche arrotolate e a quell’urgenza di sporcarci, di esporci in prima persona, lasciando un segno concreto. Come ogni limite che si rispetti diventa tratto distintivo, caratteristica intrinseca del nostro essere e, perché no, motivo di malcelato orgoglio. Ma come sposare il nostro “fare” con la privazione dello spazio della nostra azione? Ecco che allora il limite si fa più evidente. E giù di chiamate, chat, riunioni di unità, coca, zona, staff, pattuglia, consiglio, ognuna rigorosamente su una piattaforma diversa. Quindici nuovi software installati sui computer e l’agenda che torna ad intasarsi come prima del lockdown (o peggio). Ma questo “fare” che ci ha visti subito pronti e coinvolti è un “fare” cosa? Stiamo facendo scoutismo? Continuiamo ad essere educatori? E, soprattutto, “fare” per chi? È un appagare un nostro prurito di dare senso a questo tempo o è una proposta di esperienze significative per i nostri ragazzi anche in un contesto diverso a quello abituale?
Non voglio essere distruttivo: credo fermamente che il motore che spinge il nostro “fare” sia la cosa più bella che contraddistingua il nostro essere scout nel mondo, nella politica, nel lavoro e nelle relazioni. D’altronde credo che la Provvidenza ci stia offrendo un’occasione unica per riappropriarci di quell’altro concetto: “stare”. Se da un lato ci viene sottratto lo spazio tipico e naturale della nostra azione educativa, dall’altro ci viene offerta l’opportunità di provare a fermarci. Lo “stare” è la dimensione necessaria al discernimento, apre tutto il nostro essere alla capacità di ascoltare noi stessi e ciò che ci circonda. Da brave sentinelle dobbiamo fermarci e abbassare il livello di tutti i rumori per poter scrutare davvero l’orizzonte dei bisogni nostri, dei ragazzi e del mondo.
Tempo prezioso per farsi domande, per esplorare la propria vocazione, a qualunque livello del cammino ci troviamo. Tempo per rimettere in dubbio ciò che facciamo di solito. Tempo per capire cosa del nostro metodo educativo può continuare a dare risposte anche oggi. A quel punto, dopo aver capito cosa continua ancora a muoverci, potremmo riprendere ad impegnarci verso una direzione davvero significativa. Nulla di rivoluzionario, se ci pensate bene è puro scouting.
Ma in questo fermarsi ad osservare la realtà che ci circonda mi sembra emergano almeno quattro elementi caratteristici del nostro metodo che continuano a dimostrare il loro valore. Elementi che, se messi al centro delle nostre attività, possono dare ai nostri ragazzi degli strumenti essenziali per affrontare le difficoltà della quarantena.
Verifica
Proprio come noi, i ragazzi hanno bisogno di rileggere ciò che ci sta succedendo. Capire cosa significhi per loro e per il mondo. Cosa stia cambiando nelle loro vite. Che segni stiano lasciando le esperienze di questi giorni. Proprio quando l’ordinarietà viene stravolta, c’è ancora più bisogno di mettere in ordine le cose. Non stanno vivendo delle giornate vuote, ma diverse, comunque piene di stimoli nuovi ed inediti. Le esperienze che vivono sono comunque significative, hanno bisogno di un Capo che li aiuti a capire “cosa significa per me”. Aiutiamoli a fare verifica, a capire ciò che li attraversa, cosa un domani vorranno tenere e cosa invece cambiare.
Progetto
In una generazione spesso in difficoltà con il tema del “saper sognare”, l’esperienza del lockdown può avere effetti devastanti. C’è un enorme rischio che la costrizione spaziale e l’incertezza temporale appiattiscano la dimensione della vita in un monotono susseguirsi di quotidianità identiche e ripetute. È nostro compito, come Capi, allargare questa dimensione. Dobbiamo ricordare ai ragazzi che c’è un domani di cui dovremo riappropriarci. Ci sarà un mondo che avrà ancora più bisogno di loro per ripartire, per risolvere sia problemi vecchi che oggi emergono nella loro drammaticità (penso ai temi sociali ed ambientali) sia i problemi nuovi che questa crisi si lascerà dietro. Abbiamo il tempo per capire e guardare avanti, per fissare la rotta e scegliere la strada. Progettiamo imprese, progettiamo come tornare ad essere comunità, aiutiamo i nostri ragazzi a sognare la vita che vorranno vivere e il mondo che vorranno abitare.
Rapporto Capo-Ragazzo
Ancora una volta si sta dimostrando la base della nostra azione educativa. La cura personale di ogni singolo ragazzo è l’unico strumento che abbiamo per coinvolgerlo nelle nostre attività. Non vogliamo partecipanti a videoconferenze, possibilmente con il microfono e la telecamera spenti. Vogliamo protagonisti attivi, al centro della proposta. Anche qui, dovremmo provare a entrare nel loro mondo, nella loro quotidianità. Farci raccontare cosa fanno, quali sono i loro pensieri, come stanno vivendo questa realtà. E di più: cosa si aspettano da noi, cosa vorrebbero fare, come vorrebbero costruire gli incontri, ask the boy! Rendiamoli responsabili dello stare insieme con il resto della comunità e noi non scordiamoci la responsabilità che abbiamo nei loro confronti, innanzitutto come persone uniche e speciali. Possiamo scegliere se ci ritroveremo come amici di vecchia data o come fratelli che hanno vissuto insieme, passo passo, tutte le fasi di questo periodo così fuori dall’ordinario.
Corporeità
Bonus track. Dopo tante riflessioni su come continuare ad essere educatori e dare il nostro contributo, dobbiamo però ammettere che, irrimediabilmente, non sarà mai la stessa cosa. Perché? La tecnologia ci fornisce la fantastica possibilità di vederci e sentirci. Che manca? Ci siamo, siamo insieme con la mente e siamo insieme anche con lo spirito. E allora, cosa manca? Perché ci sentiamo comunque mutilati?
Perché manca il corpo. Manca il toccare, il sentire gli odori, gustare la fisicità di sé stessi e degli altri. Manca l’essere stretti in un abbraccio o misurare la distanza di un panorama. Manca l’essere in un posto insieme. È una mancanza che adesso ci viene a bussare con una forza spropositata, non scordiamocela.
Perché il corpo è meravigliosamente centrale nella proposta scout. E non parlo solo di vita all’aria aperta o di salute e forza fisica. Parlo dell’essere “qui ed ora”. Parlo dell’educare alla scoperta di sé stessi, di Dio, del mondo e degli altri attraverso il proprio corpo. Attraverso esperienze da vivere fisicamente, da protagonisti con tutto il proprio essere. È qui che lo scoutismo è integrale, esigente: vuole un coinvolgimento totale. Vuole provare sulla pelle tutto ciò che significa vivere.
Torneremo a progettare attività nei boschi, torneremo a sentire il freddo sulle gambe e il fuoco sulla faccia. Ci saranno giochi, avventure e route, ricordiamoci di renderle esperienze totali.
Claudio Croccolo
Gli articoli della sezione “La parola ai Capi” sono opinioni personali dei singoli autori. Non rappresentano la voce di Pe né di AGESCI.
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