Se appartengo allora partecipo
Giordano, il mio maestro dei novizi, era pieno di domande, come e più di noi: domande esistenziali, sul senso della vita, della fede, del dolore; sul valore del servizio. Non dispensava risposte, ma aveva gambe buone: ogni prima domenica del mese ci portava ad incontrare persone che potessero darci una qualche risposta, una dritta, un indizio. Il cappellano del carcere, la famiglia accogliente, la comunità sinta, il costruttore di pace… Quegli incontri servivano a noi e forse un po’ anche a lui. Aveva certamente fatto più strada di noi e aveva decisamente molta più esperienza e strumenti di noi, ma è entrato in profonda sintonia con la nostra voglia di cercare: ha giocato il gioco con noi. Un anno di noviziato che fu una sorta di caccia francescana durata mesi. Ho scoperto persone, altre domande, luoghi. Si è aperto un mondo di cui ho iniziato a sentire di poter far parte, di “appartenere”.
Penso che uno degli scopi più attuali dello scautismo possa essere proprio questo: educare all’appartenenza; accompagnare i ragazzi e le ragazze, l’Associazione stessa, a sentirsi sempre più parte del proprio territorio, di una comunità, della Chiesa, di un Paese, del mondo intero. Non come sentimento astratto o teorico, da scrivere nei nostri Progetti di gruppo, ma come intima e profonda adesione personale e collettiva: di compassione. È un modo di stare al mondo che ci consegna all’altro e che ci permette di dare ospitalità presso di noi agli altri che incontriamo; sentire di essere parte di una comunità più grande; sentire che gli altri mi abitano e che io abito presso altri.
Nel Sudafrica del dopo Apartheid ebbe un ruolo cruciale nel processo di riconciliazione un approccio culturale, l’Ubuntu, che ha come motto «Ubuntu Ngumuntu Ngabantu», che tradotto significa «Ogni persona è persona attraverso altre persone»: riconoscere se stessi alla luce della relazione, perché ignorando o cancellando l’altro, rischio di smarrire innanzitutto me stesso e la mia umanità.
Lo dice spesso il mio amico Alberto Capannini, di Operazione Colomba. «Cosa succede se non ascoltiamo il grido di chi soffre? Succedono due cose: la prima è che chi soffre muore, ma la seconda conseguenza immediata è che io perdo la mia umanità: e l’Umanità è quella cosa che mi serve per amare i miei figli». È necessario e vitale anche per noi stessi partecipare alla vita degli altri.
È, se ci pensiamo, la storia della Salvezza: «il Verbo s’è fatto carne e venne ad abitare in mezzo a noi». La sua discesa presso di noi non gli è stata conveniente e non ha avuto un passaggio facile tra noi; ma se ancora oggi possiamo avere una relazione con Dio, è perché nel momento più drammatico ci ha consegnato sua madre e ci ha resi figli. Noi crediamo in un Dio che si è fatto relazione per noi.
Oggi quindi ai rover e alle scolte che prendono la Partenza più che chiedere «Chi sei? Dove vai?», andrebbe forse chiesto «Di chi sei? A chi appartieni? Chi ti appartiene?».
L’appartenenza è in effetti il presupposto di ogni vera partecipazione. Che non può essere solo un sostantivo (la partecipazione), ma deve diventare Verbo per farsi movimento (partecipare).
Possiamo quindi domandarci se siamo educatori che partecipano: se facciamo parte della vita delle persone con cui siamo in attività; se sentiamo di essere parte della nostra Comunità capi; se l’Associazione è casa nostra; se consideriamo la Chiesa un nostro spazio vitale; se il mondo ci riguarda: se “mi importa” davvero ciò che accade attorno a me.
Se partecipo alla vita che mi sta intorno (un intorno ampio) e non solo a quella che si agita dentro di me, è difficile tenere le mani in tasca e i piedi sul divano. Diventa necessario alzarsi, prendersi per mano ed esplorare sentieri nuovi, con passi nuovi.
Gli eventi recenti hanno travolto le vite di tutti in un’esperienza globale che ha lasciato profonde ferite, incertezze, fragilità, solitudini, smarrimenti di cui siamo chiamati a farci carico. I novizi di oggi non hanno potuto fare quella stessa caccia francescana alla ricerca di persone e luoghi a cui appartenere: il loro mondo si è ristretto in un lampo, le porte si sono chiuse e la loro vita si è concentrata nei pochi metri di una stanza. L’imperativo costante a cui sono stati esposti per molti mesi è stato “non si può fare”, “stai attento”, “stai distante”. Non sono state solo parole o indicazioni: è stato un trauma che va considerato. Dobbiamo provare a circoscrivere quelle (opportune) indicazioni di sicurezza e consegnare ad ognuno la possibilità di riappropriarsi pienamente della propria dimensione comunitaria. Quello che possiamo fare è quello che sappiamo fare meglio: riaccompagnare ogni persona al centro della propria esistenza, ricucendo appartenenze, rimotivando relazioni, mettendo a fuoco il Senso, provando a scongelare le paure riscaldando speranza. Lo sappiamo fare e lo facciamo ogni giorno, scegliendo di chinarci su ognuno, chiedendo “Come ti chiami?”, “Come stai?”, dando ospitalità presso di noi, camminando accanto, dando un Nome alle cose e alle persone, lasciando che qualcuno si accomodi nei nostri pensieri e nei nostri affetti; traslocando anche noi a nostra volta presso altri, accomodandoci, disarmandoci.
Questo mi ha insegnato Giordano, il mio maestro dei novizi di molti anni fa, giocando il gioco anche con me: la partecipazione in quanto tale non esiste; ma se appartengo, allora partecipo.
[Foto di Ernesto Brotto]
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