Uomini e donne prima che migranti

di Laura Bellomi

@laurabellomi

 

Don Gianni De Robertis, anche fra i credenti la parola accoglienza a volte fa paura. Come mai?

«In Italia sta covando risentimento sociale. Lo scorso anno si sono registrati livelli minimi di arrivi di migranti e rifugiati via mare, eppure la precarietà generale porta a indicare negli stranieri la causa di tutti i mali, e il tema è molto strumentalizzato a fini elettorali».
Sull’emigrazione girano anche tante fake news…
«Sì, ad esempio che gli immigrati sono tutti musulmani e africani. Invece i più presenti in Italia sono romeni, marocchini, albanesi e per il 56% si tratta di cristiani.
Dati Censis alla mano, in questi ultimi anni sono più le persone che escono dall’Italia che quelle che vi arrivano. La loro presenza è poi sovrastimata: si parla di “invasione”, quando la percentuale è dell’8%. La sicurezza? Un’ossessione paradossale. Nel mondo ci sono 70 milioni di migranti forzati: loro sì, sono in pericolo. E non vengono mica tutti in Europa, anzi. Nella stragrande maggioranza vivono nei campi profughi vicino alle zone di guerra da cui scappano. Tra i primi dieci Stati al mondo che li accolgono c’è solo un Paese europeo, la Germania».
D’altra parte è anche vero che in alcuni territori la convivenza è difficile…
«Succede perché c’è tanta cattiva accoglienza. In Italia ci sono 600-700 mila persone “clandestine”, perché la legge non consente loro un titolo di soggiorno. In questa condizione è più facile finire preda della criminalità. Se negli ultimi anni ci sono state sette sanatorie significa che il sistema non funziona e, cancellando la protezione umanitaria, gli ultimi decreti non hanno certo portato a una riduzione dell’irregolarità».
I credenti farebbero bene a “farsi sentire” chiedendo, ad esempio, l’apertura dei porti, oppure è bene operare nel concreto e nel “nascondimento”?
«I cristiani devono assolutamente farsi sentire. La solidarietà personale non basta, bisogna chiedere politiche adeguate. Più che perseguire la risoluzione dei problemi gli schieramenti politici seguono logiche elettorali, ma per noi cristiani l’accoglienza non è una questione periferica. A volte rischiamo di legare la fede a particolari ininfluenti, ci arrovelliamo sui tortellini fatti o meno con la carne di maiale, ma così trascuriamo la giustizia e la misericordia».
Si parla sempre più di migranti e sempre meno di persone..
«Non si può ridurre una persona a un aggettivo, migrante o omosessuale che sia. L’ha detto anche il Papa: “Non si tratta solo di migranti”. Se davanti a chi chiede aiuto ci voltiamo dall’altra parte, la vita diventa arida».
Può fare un esempio concreto?
«Nello scorso inverno a Roma, nell’indifferenza di tutti, sono morte di freddo 12 persone.
Quando nel 1989 morì un senzatetto, sempre qui a Roma, sempre per il freddo, furono chieste le dimissioni del sindaco. Ci stiamo abituando alla violenza: è in gioco la vita dei migranti ma anche la qualità delle nostre relazioni e il futuro della fede cristiana, che è legata non ai simulacri ma alle persone fragili con cui Gesù si è voluto identificare».
Qual è la sfida dell’accoglienza oggi?
«Il vero problema è che l’Italia sembra non essere capace di offrire futuro a nessuno! L’Italia non ripartirà se non saremo capaci di rendere protagonisti tutti coloro che abitano il Paese. La Nazionale di pallavolo è un bell’esempio: si vince solo insieme».
Di cosa è fatta la buona accoglienza?
«Come dice il Papa, occorre coniugare insieme quattro verbi: accogliere, promuovere, proteggere, integrare.  Buona accoglienza è quella in cui ci si chiama per nome. Citando don Tonino Bello, è creare un Paese dove si possa vivere la “convivialità delle differenze”».
Gesù  cosa ci ha detto a proposito?
«Più che dire, ha fatto. Mi commuove che il Signore si sia presentato come un piccolo che ha bisogno di qualcun altro che si prenda cura di lui. Nell’episodio della Samaritana è lui che chiede dell’acqua alla donna: la vera carità è fare scoprire all’altro ciò che lui stesso può dare. Dio si è fatto povero per arricchirci, occorre che ci sentiamo poveri altrimenti l’altro diventa solo il destinatario della nostra carità».
Cosa fa la Chiesa cattolica per chi emigra?
«Mi piace ricordare Francesca Saverio Cabrini, che fra Ottocento e Novecento attraversò l’Atlantico 28 volte per accompagnare gli Italiani nelle Americhe. Oggi con l’8 per mille la Chiesa finanzia moltissimi progetti. Inoltre Fondazione Migrantes produce diversi Rapporti sul fenomeno migratorio, per ricondurre il dibattito pubblico ai dati reali».
I gruppi scout, cosa possono fare?
«Promuovere situazioni di incontro. Un amico ucraino mi ha detto: “La Chiesa fa tanto, ma noi non siamo interessanti per voi”. Abbiamo la presunzione di non poter imparare nulla dall’altro, chi di noi dedica una domenica per partecipare alla festa di qualche comunità straniera? Poi c’è l’appello di papa Francesco, del settembre 2015 – “Ogni parrocchia ospiti una famiglia di profughi” –, che non è da archiviare. È importante anche passare dallo scontro all’incontro: certo c’è anche chi è in mala fede, ma avere dubbi non è un peccato. Il solo schierarsi non basta: come dice il cardinale Gualtiero Bassetti, presidente della Cei, noi cristiani dobbiamo “rammendare”, evitare che il Paese si spacchi perché non gioverebbe. Non significa scendere a compromessi ma saper gettare un ponte».
A chi ha dubbi sull’“aprire la porta”, cosa direbbe?
«Se ci lasciamo guidare dalla fede, la paura svanisce. Le paure non sono giustificate, dobbiamo scegliere per amore. Nel Vangelo l’espressione “non abbiate paura” è ripetuta 366 volte: una volta al giorno, compreso l’anno bisestile. Pensiamo a Pietro, che quando ascolta l’invito di Gesù cammina sulle acque mentre quando si lascia prendere dalla sua paura affonda. Le migrazioni, diceva già Benedetto XVI, sono un segno dei tempi, una realtà attraverso cui Dio ci parla: possiamo riscoprire la cattolicità, ovvero l’appartenenza all’unica famiglia umana, il dialogo ecumenico e interreligioso. Personalmente, gli incontri mi hanno sempre arricchito: sono pentito solo delle volte in cui mi sono lasciato paralizzare dalla paura».
Quale ricchezza nasce del tenere la porta aperta?
«Ammetto di essere disincantato, l’incontro con l’altro inizialmente accresce le problematiche. Il Papa dice che bisogna essere curiosi del segreto che l’altro custodisce: se non abbiamo questa curiosità, la carità umilia chi la riceve. Viceversa, l’esperienza dell’accoglienza rinnova la vita! Nel 2015 nella mia parrocchia di Bari un gruppo di famiglie si prese cura di sei neo maggiorenni. All’inizio il palazzo era terrorizzato, ma in pochi mesi tutto è cambiato: l’incontro con l’altro aiuta a conoscere se stessi e a uscire dal narcisismo».
Qual è la preghiera che ha nel cuore?
«Spero che ciascuno sappia riconoscere nell’altro il suo volto umano. Dice un racconto ebraico: “Ascoltai un rumore nella boscaglia, mi avvicinai e mi accorsi che era un uomo; mi avvicinai ancora e vidi che era mio fratello”. Oggi la differenza è fra chi parla per di stranieri e chi, invece, di Ibrahim, Youssef…».

 

Don Gianni De Robertis, 64 anni, dal 2017 è direttore di Fondazione Migrantes, l’ufficio della Conferenza episcopale italiana (Cei) che si occupa della cura pastorale dei migranti e delle persone in movimento (ad esempio, rom e sinti).

 

[Foto Istock]

 

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