Se potessi avere una bacchetta magica o uno dei tre desideri di Aladino o lo schiocco magico delle dita di Mary Poppins, ecco, a volte io vorrei riscrivermi la vita e cancellare le cose che non rifarei, le parole che non direi più, le amicizie di cui non mi è rimasto nulla, il tempo perso, le occasioni sprecate e chissà quanto altro. Fosse anche solo per avere un’immagine del mio passato che mi rassomigli e fare pace.
Ma poi mi dico che siamo il frutto della nostra storia, delle scelte compiute, delle persone incontrate, nel bene e nel male, e faccio pace, almeno per un po’.
Se invece di indulgenza fossi capace di accoglienza! Ecco di cosa avrei bisogno. Ecco cosa dovrei donarmi se avessi una magia a disposizione. Dovrei, ma forse dovremmo – che chissà quanti siete là fuori come me – donarci la capacità di accoglierci, di accogliere noi stessi, le nostre fragilità, i passi falsi, gli errori e le paure e magari ripartire, guardare avanti, sapendo che necessitiamo di integrità. Accoglierci non per giustificarci, ma perché riconoscerci nelle nostre crepe è il primo passo per curarci e amarci. Dovremmo tenerle pulite le crepe, tirar via la polvere o scostare le tende, far entrare un po’ di luce, anche quando è inverno e fuori è più buio, anche quando fa paura, anche se fa male, anche se abbiamo timore che qualcuno le veda. La polvere riempie le crepe e ci fa credere che non ci siano più, che si siano rinsaldate da sole, come per magia appunto, ma basta un’altra folata di vento e la ferita è aperta di nuovo e la crepa è ancora lì, incredibilmente più scavata di quando era comparsa.
Ci vuole tempo, ci siamo detti qualche mese fa. Ci vuole tempo anche per accoglierci, per imparare a convivere con noi stessi, per rinunciare alla rassegnazione del “sono fatto così” e per conquistare la tensione a voler essere migliori, almeno un po’. Quando mi guardo dentro, magari prima di confessarmi, c’è un momento in cui mi dico che cado sempre negli stessi errori. Da anni. E chissà a quanti altri capita – non sono solo io, vero? – Ho provato a chiedermi perché succede – che va bene essere recidivi però insomma – e credo di aver capito che forse mi fermo lì: a riconoscere di aver sbagliato, a sapere esattamente dove ho sbagliato, ma a non aver la forza, la volontà o forse anche solo la voglia di cambiare. Perché siamo fatti così, perché massì alla fine che sarà mai, perché fossero queste le cose gravi. E invece no. Questo non significa accogliersi, questo significa giustificarsi, ancorarsi, fossilizzarsi persino. Accogliersi mi fa pensare a una carezza sulla testa, a una mano sulla spalla, a un abbraccio forte, alle lacrime che si asciugano, al dirsi che sì abbiamo sbagliato, che forse possiamo chiedere scusa e che poi dobbiamo pensare al prossimo passo senza dimenticare di portare con noi la “barella”.
Torno indietro di qualche anno, a quel Vangelo di Giovanni (5,1-18) e a un’immagine che don Alberto mi ha donato e mi accompagna da allora:
Dopo questi fatti, ricorreva una festa dei Giudei e Gesù salì a Gerusalemme. A Gerusalemme, presso la porta delle Pecore, vi è una piscina, chiamata in ebraico Betzatà, con cinque portici, sotto i quali giaceva un grande numero di infermi, ciechi, zoppi e paralitici. Si trovava lì un uomo che da trentotto anni era malato. Gesù, vedendolo giacere e sapendo che da molto tempo era così, gli disse: «Vuoi guarire?». Gli rispose il malato: «Signore, non ho nessuno che mi immerga nella piscina quando l’acqua si agita. Mentre infatti sto per andarvi, un altro scende prima di me». Gesù gli disse: «Alzati, prendi la tua barella e cammina». E all’istante quell’uomo guarì: prese la sua barella e cominciò a camminare.
Gesù chiede all’uomo se vuol guarire, come potrebbe infatti essere libero se incapace di volere? Dio si fa domanda, ma la risposta spetta all’uomo. L’uomo guarisce, ma non c’è alcun contatto fisico con Gesù, guarisce mediante la fiducia ritrovata nella propria volontà, completando il primo passo compiuto da Dio.
Ma la sua vita non riparte da zero, affatto. Gesù gli dice di prendere la sua barella e di camminare con essa. Abbastanza scomodo potremmo pensare, e in effetti lo è. Ma la barella è il passato di quell’uomo e deve portarlo con sé, per ricordarsi chi era, per sapere che basta pochissimo per ritrovarsi adagiati nuovamente su quella barella, ostaggio della propria immobilità. E allora convivere con la barella può essere difficile, ma si rende necessario. La barella ci ricorda di vegliare sulla nostra vita e ci invita a tenere vivo il bisogno di essere guariti ogni tanto.
Lo penso quando mi confesso, che in fondo è come se mi sentissi dire “Ti accolgo nei tuoi peccati” prima ancora di “Ti assolvo dai tuoi peccati”.
Perché forse, solo quando saremo stati capaci di accoglierci potremo accogliere l’altro. Devo sapere dove sono tutti i miei pezzi, conoscere le crepe, avere in mente dove c’è bisogno di luce e dove invece l’illuminazione è a giorno, per accogliere i pezzi e le crepe dell’altro e magari far luce insieme, accudire le ferite insieme, aiutarsi a essere migliori, lottare per essere felici.
Saranno stati i cinque matrimoni della scorsa estate, ma la parola accoglienza mi ha fatto anche pensare alla formula del matrimonio cristiano: “Io Valeria, accolgo te Francesco come mio sposo”. Non “voglio te”, “scelgo te” o “prendo te”, ma accolgo. Ti accolgo, ti accolgo come dono nella mia vita e mi faccio un po’ più piccola perché possa starci anche tu su questa strada che ci vede insieme.
È come quando una donna aspetta un figlio: non ti accorgi che cresce, ma pian piano si fa spazio e il resto di te, che lo circonda, si riaccomoda e non si snatura. E una volta che quel bimbo nasce, tutto ritorna al proprio posto. È la magia della natura. È la potenza dell’amore.
Accoglienza è il corpo di una madre, ma anche il cuore di una madre che i figli non sono solo quelli che nascono da noi, il ventre caldo della terra che si fa scrigno per un seme, le braccia instancabili di un padre, una porta che si apre quando hai bisogno di parlare, un amico che ti abbraccia apparentemente senza un perché ma nel momento giusto. È imparare a dire “ti perdono”, è imparare ad accettare di essere perdonati, è imparare a perdonarsi, è amore sulle nostre crepe ed è luce, quella Luce capace di dirigere i nostri passi sulla via della pace.
[foto di Giulia Jachemet]
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