«Il timore di ciò che è sconosciuto è legato all’istinto di sopravvivenza, ma ha più paura chi vive in una bolla di pregiudizio e teme di perdere i propri privilegi». Ne parliamo con il sociologo Piero Piro
La paura dello sconosciuto, di ciò che non riusciamo a ricondurre alle nostre categorie di “quotidiano” è una risposta fisiologica normale. E’ un meccanismo di difesa che abbiamo ereditato dal passato e che è fortemente legato all’istinto di sopravvivenza. Noi non possiamo mai sapere quale siano le intenzioni dello sconosciuto chi ci viene incontro nel buio della notte. Per proteggerci dallo sconosciuto abbiamo inventato diverse “strategie” per svelarne le intenzioni pacifiche o distruttive. La paura di chi non conosciamo è dunque un sentimento del tutto “normale”. Tuttavia, quando la paura tende a nutrire i nostri giudizi sugli altri, si possono generare dei veri e propri “mostri” dentro le nostre menti, alimentati quotidianamente da “informazioni” attentamente selezionate dal nostro sistema nervoso che ci servono per tenere in piedi questi pre-giudizi tremendi. Nella maggior parte dei casi, alcune paure di cose e persone sono tenute in piedi da una forma molto pervasiva di paranoia, alimentata dall’ansia, dal sospetto, dall’ignoranza. La paura del povero, del migrante, del diverso, rientrano spesso nella logica del pregiudizio. Non sono sentimenti sostenuti dall’esperienza e dalla conoscenza. Oppure, da una condivisione concreta di esperienze quotidiane. Raramente ho incontrato persone che hanno fatto esperienza diretta della marginalità – anche quella più disperata – con delle “paure”. Rabbia, senso d’impotenza, voglia di fare di più sì, ne ho incontrata ma paura proprio no. La paura la trovo più in chi vive in una bolla di pregiudizio e teme di perdere i propri privilegi. Nel piccolo proprietario che sente minacciato il suo fortino d’interessi. Nel disprezzo dei poveri c’è poi un elemento proiettivo molto forte. Si disprezza chi si ha paura di diventare, perché il povero è sempre un’ipotesi di vita che ci viene proposta e che, fondamentalmente, ci terrorizza. Disprezzando il povero fuori di noi, dimostriamo di avere delle paure dentro molto forti. Non riusciamo ad accettare l’ipotesi che la vita può anche “fallire” e che la fragilità è una condizione essenziale del nostro vivere.
La paura come istinto no. La paura come nutrimento dei pregiudizi tende ad anticipare la realtà e a modificarla. E’ un pregiudizio, una chiusura e una forma di schema che si auto-giustifica e auto-alimenta.
Sono convinto che il cosiddetto populismo sia una risposta a delle paure molto diffuse. Innanzitutto la “paura” di non avere più una terra stabile dove abitare perché, come ha scritto Bruno Latour, “il pianeta è troppo piccolo e limitato per il globo della globalizzazione; ed è troppo grande, infinitamente troppo grande, troppo dinamico e complesso per essere contenuto nelle frontiere ristrette e limitate di qualsivoglia località. Siamo tutti doppiamente travalicati: dal troppo grande come dal troppo piccolo”. Di fronte a queste tendenze disgreganti, molte persone hanno sentito la necessità di “mettersi al riparo” in una narrazione che sia ancora in grado di contenere la paura dell’insignificanza. I populisti – a cominciare da D. Trump – stanno cercando di offrire una narrazione rassicurante che permetta identificazione e senso di appartenenza. Due bisogni fondamentali per l’uomo. Grazie alla definizione di alcuni “nemici” in maniera molto netta e molto precisa, è possibile canalizzare la paura ed evitare che si blocchi l’intero corpo sociale. L’immigrato che viene “a turbare l’equilibrio e a rubare il lavoro” può diventare un bersaglio perfetto. Basta trovare un canale per far fluire la rabbia e la politica populista può diventare un potente strumento di aggregazione-individuazione. Il populismo cresce sempre di più dove la globalizzazione ha lasciato il deserto sociale. Dove le persone sentono di non aver più nessun ruolo nella costruzione del proprio destino. Occorrerebbe prendere molto sul serio la dinamica che alimenta il populismo perché è dentro questa dinamica che si determina il nostro avvenire socio-politico.
La casa dove ognuno di noi vive può essere un fortino dentro la quale vivere barricati, oppure, uno spazio di bene da mettere in comune con le altre persone. Molto dipende dalla capacità di tenere le porte aperte e qualcosa di caldo da offrire in ogni occasione. In questi anni ho visto sempre di più le case diventare fortini. Si riceve solo su appuntamento e solo per poco tempo. Non c’è nessuno spazio per un’accoglienza inattesa. Le nostre vite si sono fatte molto complicate e pare che accogliere sia diventata l’ultima delle nostre esigenze. Credo che l’accoglienza si impara in famiglia, negli atteggiamenti dei genitori. Se i nostri genitori ci riescono a trasmettere l’idea che l’altro è importante e dobbiamo riservargli sempre un posto alla nostra mensa, allora è probabile che da adulti cercheremo di riprodurre questo modello. Ma, sinceramente, io vedo adulti che fanno così fatica a sopravvivere che trasmettono l’idea che l’altro è un fastidio, un peso insopportabile. Come può nascere un sentimento d’accoglienza in questa situazione? Il benessere ha accelerato il meccanismo di distruzione dell’accoglienza spontanea a livello familiare. Io ricordo una società più disponibile all’accoglienza perché meno concentrata sul culto del benessere e dell’efficienza. Oggi questi spazi liberi di accoglienza si sono ridotti a nulla. L’accoglienza non è una teoria. E’ lo spazio concreto che facciamo all’altro nella nostra quotidianità. Io questo spazio per l’Altro lo vedo proprio ridotto a poca cosa. Non si finirebbe così facilmente per strada se tenessimo le porte di casa più aperte. Se fossimo meno concentrati a cercare di non affogare in una società di arrivisti.
Chiunque riesca a fare spazio nel suo cuore per la presenza concreta di altre persone. Chi si organizza, nelle piccole cose di ogni giorno, a vivere come se gli altri contassero qualche cosa. Chiunque riesca a vincere dentro di sé l’angoscia. Solo rischiando direttamente, in prima persona, è possibile sviluppare un pensiero non convenzionale. a dell’indifferenza. L’impotenza del “nulla può cambiare”.
Il metodo migliore per combattere il pregiudizio e le false informazioni è coinvolgersi direttamente in situazioni che permettano di fare esperienza. Gettarsi nella tormenta, nel terribile imprevisto che è la vita. Generare pensiero dall’azione. Valutare in base al conosciuto. Progettare nuove imprese sempre più complesse. Oggi c’è tanta cattiva informazione perché si preferisce vivere per procura, dietro uno schermo, piuttosto che fare esperienza diretta di un fatto. Solo che l’esperienza diretta è l’unica in grado di fornire una visione circostanziata di un fatto. Occorre fare inchiesta sociale continua, generare contro-informazione a partire dalla propria azione riformatrice. Solo rischiando direttamente, in prima persona, è possibile sviluppare un pensiero non convenzionale.
Oggi si può essere “ottimi funzionari”, servire docilmente un’organizzazione (sia la chiesa, l’esercito, la scuola, il sindacato, lo scoutismo) senza mai causare nessun problema “di servizio”. Poi, in piena libertà di giudizio, votare e sostenere il peggiore dei populisti. Questo avviene sempre più spesso in una società dove il pensiero critico non è sviluppato e incentivato. Se si vuole crescere in autonomia di giudizio e d’azione occorre addestrarsi alla solitudine del pensiero critico. Affrontare la paura del mostro conformista e come San Giorgio uccidere il drago della menzogna e della paura organizzata.
Pietro Piro (1978), sociologo e saggista. Attualmente è responsabile ricerca e sviluppo dell’area sociale e formativa dell’Opera Don Calabria di Verona.
[Foto Martino Poda]
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