@angelorgiordano
Non riesco a liberarmi dall’ansia neppure mentre tiro fuori lo zaino dall’armadio. I giorni sul calendario si sono sgretolati l’uno sull’altro. Questi mesi sono stati fin troppo densi, altro che tempo sospeso: finita la quarantena, gli amici in difficoltà e il lavoro in bilico sono stati un pensiero fisso.
Ho solo un vago ricordo del capo che ero a gennaio 2020. Quando sarà sicuro riprendere le attività senza limitazioni che capo sarò? Avrò un lavoro? Quando il Cerchio tornerà a riunirsi nella piccola Quercia cosa dovrà dire Babbo Scoiattolo? Cosa dovrà fare per far traboccare di nuovo la gioia tra il suo popolo? Le Coccinelle sono abbastanza grandi per avere queste e altre paure.
Ho subito un trauma. E un trauma non è un esame di maturità, non è una prova di iniziazione superata come un hike o al Challenge. L’esperienza della pandemia non mi trasformerà automaticamente in un capo più bravo, in un uomo migliore, capace di amare… Di più? Meglio?
Riconoscere il trauma è già qualcosa ma neppure accorgersi di aver vissuto, prima, in un mondo distorto è sufficiente. Già, perchè quel vago senso di inquietudine ci è familiare, no? L’uscita, la riunione di routine, una bella attività, l’apprezzamento dei genitori… Poi fare un passo fuori dalla Chiesa o dalla sede e trovarsi immersi in una distopia plumbea fatta di gente che ride per la morte di una bambina migrante, tanto per fare un esempio.
Dirsi: «Eh, no: non permetterò che tutto torni come prima» è, invece, un buon inizio. Il Papa ci ha ricordato che «peggio di questa crisi c’è solo il dramma di sprecarla». E allora ho pensato alla mia prossima uscita di Cerchio. So per certo che quel giorno saremo ben più della somma delle nostre paure. Lasciare il mondo un po’ migliore vuol dire cambiare assieme, sorreggendosi l’un l’altro verso il progresso umano. Ho poca fiducia nel cambiamento del singolo, non perchè sia impossibile ma perchè non è detto che porti a un progresso sociale effettivo. Dobbiamo, quindi, educarci e sostenerci per prima cosa tra adulti, parte di una comunità attiva e ben decisa a «non sprecare la crisi». Perchè è inutile diventare più empatici da soli. L’empatia, che si rafforza sorridendo alla cassiera del supermercato, a ogni telefonata di conforto, a ogni azione di servizio, gioca a rimpiattino con la rabbia. Perchè la rabbia c’è, profonda, velenosa. Ci devo fare i conti. Ma non da solo. Mi sono sentito meglio (non necessariamente migliore) quando, nei mesi più duri, qualcuno mi ha aiutato e quando qualcuno mi ha chiesto aiuto. Nell’angoscia della pandemia abbiamo fatto insieme un pezzo di strada, sostenendoci l’un l’altro, impermeabilizzando il cuore allo sconforto, progettando un futuro ancor prima che le macerie del presente avessero smesso di accumularsi. L’ansia non è scomparsa ma nella nebbia dell’incertezza, beh, non ho riconquistato io una speranza: ce la siamo donata a vicenda. Ed eccolo lì il mio zaino, pronto per la prima uscita di Comunità capi e per il primo volo dell’anno. Dentro c’è ancora qualche preoccupazione, ma non mi toccherà portarla da solo.
[Foto di Martino Poda]
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