Not engaged in education, emplyment or training

Da qualche tempo oramai sentiamo usare il termine NEET, riferito ai nostri giovani (capi e non). Per fare chiarezza abbiamo chiesto aiuto a Giulia Assirelli, sociologa e dottoranda presso l’Università di Trento.

“Choosy“, “fannulloni”, “bamboccioni” e pure un po’ sfigati. La nostra classe dirigente non si risparmia sui termini, quando c’è da parlare a proposito dei giovani in Italia. Meno di pancia e decisamente più scientifica è l’uso della parola NEET. Che cosa significa? Chi sono i NEET? Che categoria di giovani rappresentano?
Il termine NEET – sigla che sta per “not in education, employment or training” – indica quei giovani, di solito di età compresa tra i 15 e i 29 anni, che sono usciti dal sistema scolastico o formativo e non trovano collocazione nel mercato del lavoro. La categoria di NEET comprende dunque tutti coloro che non sono più studenti, né sono coinvolti in percorsi formativi di altro genere, e che non hanno un lavoro, che essi lo cerchino o meno. In altre parole, questa categoria viene utilizzata per quantificare la mancanza di lavoro in senso lato: essa infatti include i due gruppi tradizionali dei disoccupati – cioè le persone non occupate ma immediatamente disponibili a lavorare, che hanno compiuto azioni attive di ricerca di lavoro nelle ultime quattro settimane – e degli inattivi per motivi diversi dallo studio – cioè quelle persone che non sono occupate né in cerca di occupazione, eccezion fatta per gli studenti.  Negli ultimi anni questo termine ha riscosso molto successo, sia nel discorso pubblico che nella ricerca scientifica, appunto perché consente di dare una misura complessiva del livello di vulnerabilità dei giovani che transitano dalla scuola al lavoro.
Le tradizionali categorie di occupazione, disoccupazione e inattività sono sembrate inadeguate a dar conto degli accidentati inizi di carriera delle giovani generazioni: difficoltà a trovare il primo lavoro, spesso precario, frequenti periodi di disoccupazione ed episodi di scoraggiamento che talvolta ne conseguono portando ad abbandonare la ricerca di lavoro.
Ricordiamoci inoltre che, a differenza del passato, questo periodo può protrarsi a lungo, fino ai 35 anni e oltre, incidendo in maniera significativa su scelte fondamentali quali l’uscire dalla casa dei genitori, sposarsi, avere dei figli. L’acronimo NEET è stato coniato appunto per dare complessivamente conto di queste difficoltà.

Quali sono i dati in Italia e in Europa relativi ai NEET?
Secondo le stime dell’Istat , nel 2013 il 26% dei giovani tra i 15 e i 29 anni facevano parte della categoria di NEET. Il dato è allarmante soprattutto se confrontato con quello di un decennio fa: la quota di NEET nel 2004 era pari “solo” al 19,5%. Il fenomeno risulta particolarmente concentrato tra le fasce tradizionalmente più deboli della popolazione: le donne, i residenti al Sud e gli stranieri.I dati Eurostat  evidenziano inoltre come l’Italia si caratterizzi per una quota di NEET decisamente superiore alla media europea, che nel 2012 era pari al 15,4%. Il dato riportato dall’Italia è in linea con quello degli altri paesi mediterranei (Grecia e Spagna in particolare), ma nettamente più elevato rispetto a quello riscontrato nel resto d’Europa.

Possiamo ritenere la categoria dei NEET un indice affidabile del disagio occupazionale del nostro paese?
Il dato stimato da Istat è certamente rilevante: nel 2013 quasi due milioni e mezzo di giovani erano classificati come NEET. Tuttavia, affinché questo dato sia interpretato correttamente, è necessario fare alcune precisazioni.
Come abbiamo visto, i NEET comprendono al loro interno due grandi categorie: i disoccupati e gli inattivi. Fanno parte dei disoccupati i giovani che, una volta finito di studiare o, in senso più ampio, di formarsi, sono alla ricerca del primo impiego o coloro che sviluppano una carriera costellata di ripetuti episodi di disoccupazione a causa di un mercato del lavoro instabile e precario.
Tra gli inattivi contiamo invece coloro che non studiano e non lavorano, sia per scelta (ad esempio: giovani donne che decidono di farsi carico degli oneri familiari, uscendo dal mercato del lavoro), sia perché scoraggiati da un mercato del lavoro che offre poche alternative.Il rischio che si corre utilizzando la categoria NEET è proprio questo: fondere in un’unica categoria gruppi di giovani con caratteristiche e problemi molto diversi, e rappresentarla come una generazione di esclusi e sfiduciati. L’elaborazione e il largo utilizzo del concetto di NEET ha senz’altro avuto il pregio di dare rilevanza alle difficoltà delle giovani generazioni e di mettere il tema sotto i riflettori. Tuttavia, nel momento in cui occorre fare una diagnosi precisa per elaborare politiche di contrasto alla vulnerabilità dei giovani è necessario sacrificare la generalizzazione che porta con sé la categoria di NEET.

Quindi, quali attenzioni nel trattare il tema dei NEET?
È rischioso confondere il fenomeno della disoccupazione con quello dell’inattività. Ciascuno di questi due stati incide in misura differente nella composizione della popolazione NEET ed è decisamente semplicistico parlare di una moltitudine di giovani “sfaccendati”, che non studiano e non lavorano. Quanto meno, dovremmo farci carico di distinguere tra chi si trova temporaneamente nella condizione di NEET, in conseguenza delle ben note caratteristiche di precarietà del lavoro giovanile, da chi invece scivola più o meno velocemente dallo stato di disoccupazione a quello di inattività, a volte a causa di un possibile scoraggiamento di fronte alle enormi difficoltà incontrate nell’inserimento nell’orbita lavorativa, altre volte per una scelta più o meno consapevole dettata dalle condizioni socio-economiche individuali. [intervista raccolta da denis Ferrareti]

Giulia Assirelli – Laureata in Sociologia presso l’Università di Milano-Bicocca con una tesi sul fenomeno dei NEET, è attualmente dottoranda in Sociologia e Ricerca Sociale dell’Università di Trento. I suoi interessi di ricerca riguardano la transizione scuola-lavoro, i ritorni economici ed extra-economici dell’istruzione e il fenomeno dell’overeducation, tematiche sulle quali sta pubblicando articoli in diverse riviste nazionali ed internazionali.

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