Agosto 2008. Una terrazza in un appartamento confiscato nei Quartieri spagnoli, Napoli. Una lanterna accesa a illuminare la sera. Il clan seduto pronto per la preghiera. C’è silenzio. Ma un silenzio che sa di imbarazzo, non di raccoglimento. Un silenzio che spegne l’entusiasmo e la leggerezza dei vent’anni. Un silenzio necessario “perché dobbiamo pregare” e poi torniamo a essere noi. Un silenzio in cui molti cercavano di trovare qualcosa di intelligente da dire più che di vero. Era il mio primo anno da capo fuoco. E quel silenzio che avevo sentito per tutto l’anno iniziava a diventare plumbeo. Era come se fare il segno della croce ponesse un confine tra il prima il dopo, ma non un confine di spirito, un confine di verità piuttosto. Come se Gesù «si sintonizzasse quando facciamo il segno della croce e non camminasse con noi tutto il giorno; come se per il resto della giornata non fosse al nostro fianco, non ci ascoltasse, non ci vedesse e si facesse i fatti suoi per poi venire a sentire cosa abbiamo da dire solo quando facciamo il segno della croce». Fu più o meno quello che dissi, di getto. Ricordo qualche risatina, ma capii di aver colpito nel segno e da lì, infranto quel muro, cominciammo a camminare veramente insieme.
Del resto «dove due o tre sono riuniti nel mio nome, io sarò con loro». E noi siamo sempre riuniti nel suo nome, non solo quando preghiamo, “facciamo la catechesi” o le cerimonie. È che in molti casi noi capi tendiamo a vedere la fede come qualcosa di altro da noi, così come la Chiesa, così come la testimonianza. È come se ci sentissimo più chiamati a preparare la catechesi (in quanto «capi catechisti»: quante volte l’abbiamo sentito dire?) che non a raccontare l’incontro. Il nostro incontro con Gesù. Ma impegnarsi a confezionare una “bella attività di catechesi da far fare ai ragazzi” è come raccontare un libro di cui si è letta solo la quarta di copertina o un film di cui si è visto il trailer. I ragazzi ascolteranno, risponderanno, pregheranno, apparentemente saranno anche più o meno coinvolti (e andrà “tutto bene”). Però che bello quando qualcuno che si è innamorato ci racconta come si sente. O quando un amico ci descrive i posti che ha visto nel suo ultimo viaggio. Che gioia quando qualcuno a cui vogliamo bene ci riferisce una cosa importante che gli è accaduta. Pensate a come sarebbe bello se anche la fede si nutrisse di questi racconti di incontri. Pensate se noi per primi fossimo per i nostri ragazzi la voce di coloro che hanno incontrato Gesù. E invece spesso decliniamo l’invito. Preferiamo i santi, i testimoni “veri”, cerchiamo qualcuno che abbia qualcosa di grandioso nella sua vita. Un miracolo almeno. O che abbia compiuto un’impresa eccezionale. Tutto giusto: ci sono figure che sono state importanti per la Chiesa e per il mondo. Ci sono persone che hanno davvero cambiato la Storia e alle quali dobbiamo essere grati e possiamo ispirarci.
Ma non bastano. Perché abbiamo bisogno del sublime ma anche del quotidiano. Perché ci piace guardare al cielo, ma sporcarci le mani con la terra. E perché, giocando tra il sacro e il profano, Lucio Dalla direbbe che «l’impresa eccezionale, dammi retta, è essere normale». Ecco, non dimentichiamo la nostra normale eccezionalità. Perché è anche quella dei nostri ragazzi. E se certamente rimarranno impressionati dalle grandi testimonianze, è alla nostra storia che potranno porre le domande. È a noi che potranno chiedere come ci si sente a provare a essere cristiani, cosa significa, come si crede, perché si crede, a cosa serve, dove porta. E a noi non è chiesto di dare le risposte giuste. A noi è chiesto di dare le risposte vere, perché vissute. A noi è chiesto di raccontare quell’incontro, di farci testimoni della nostra storia con Gesù, di raccontare – se e come ci va – quella volta in cui la fede mi ha aiutato, quella volta in cui ho avuto un sacco di dubbi, quelle domande a cui sto cercando ancora risposta (spoiler: se mi sto ancora chiedendo se Dio esiste, occhio che forse qualcosa non va nella mia scelta di essere capo, avete già letto Annunciaziò, annunciaziò. Il problema fede non esiste, a pag. 16?); raccontare cosa significhi essere amato e come ci si sente a sentirsi perdonati, accolti, fratelli, chiamati, scelti. Le nostre comunità sono piene di testimoni: basta cercare, basta guardare, basta ascoltare, basta chiedere. C’è Gabriella che fa la catechista e ha una storia d’amore da raccontare. C’è Gabriele che vediamo sempre a Messa e che fa servizio nell’associazione missionaria della nostra città. C’è Enzo che nonostante i suoi acciacchi fa il giro delle famiglie bisognose a portare scorte di alimenti. Ci sono uomini e donne accanto a noi che amano silenziosamente perché credono. E poi ci siamo noi, che magari non siamo sicuri di averlo proprio incontrato, intravisto piuttosto. Ma quella luce, fosse anche solo intravista, ci rende luminosi. Del resto «voi siete la luce del mondo». Ricordiamoci di non nasconderci e splendere.
[Foto di Federica Marseglia]
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