[di Bill Paolo Valente]
La comunità non è principalmente il luogo delle emozioni ma soprattutto la sede delle relazioni. Relazioni che potranno essere più o meno intense sul piano emotivo e certamente (spesso e volentieri) anche conflittuali.
Al centro di ogni comunità c’è però la disponibilità di mettersi in gioco. C’è un rapporto di scambio, non nel senso del commercio, ma nell’ottica del dono. La logica del commercio è il do ut des: ti do qualcosa al fine di ricevere una contropartita. Lo spirito del dono è la gratuità: ti do qualcosa sapendo che non avrò nulla in cambio. Mi accorgo poi, a guardar bene, che nel dare ho ricevuto. Nel donare mi sono arricchito anch’io.
Ecco, la comunità è il luogo in cui le persone si scambiano doni in uno spirito di gratuità. Quei doni (i propri talenti naturali, la propria esperienza ecc.), messi in comune, fanno sì che il PIC (Prodotto interno comunitario) sia in crescita costante e possa anche essere esportato.
La comunità non è il luogo in cui “si sta bene”. Non è un nido bello e calduccio a cui si vola volentieri perché ci si trova sempre a proprio agio, a differenza che nel mondo quotidiano dove homo homini lupus, dove regna la diffidenza, ogni persona si fa gli affaracci suoi e guarda agli altri con sospetto. Si può anche sognare, in molti momenti, un luogo simile, in cui tutti ci accolgono, ci capiscono, ci incoraggiano. È una realtà però che, in questa valle di lacrime, non esiste. Meglio: esiste a sprazzi, ci è data come prospettiva. Però non è mai un dato di fatto costante. Ma anche lo fosse, saremmo però invitati a “uscire”. È una delle parole d’ordine di papa Francesco: “Ogni cristiano e ogni Comunità” sono chiamati a “uscire dalla propria comodità e avere il coraggio di raggiungere tutte le periferie…” (Evangelii gaudium, n. 20). “Uscire” non significa abbandonare la comunità, ma considerare che la vita ci induce a portare “fuori” i doni che coltiviamo e raccogliamo nella comunità.
La comunità non è il luogo in cui tutti sono amici, dove tutti sono simpatici a tutti. Normalmente non si scelgono gli altri membri della comunità. Li si incontra per i più svariati motivi. Magari si è già fatto un cammino insieme, ma non ci si è scelti. Come tutte le persone che si incontrano, anche i membri della comunità li riceviamo “in dono”. E non è detto che sia un dono facile.
Piuttosto che amici (lo si può essere benissimo, è ovvio) i membri della comunità sono fratelli. I fratelli non si scelgono: ci sono dati. Non è affatto scontato che il rapporto tra fratelli/sorelle sia sereno, positivo, tranquillo. Caino docet. Ma proprio l’esempio (estremo) di Caino ci dice che i fratelli sono responsabili gli uni degli altri. Siamo forse i custodi dei nostri fratelli/sorelle? Sì, lo siamo.
In definitiva la comunità non è il luogo dove “si sta bene”, ma è l’ambito dove “si vuole bene”. O dove si impara a farlo. È così per la famiglia, ad esempio, un contesto nel quale si scopre che cosa significa davvero volersi bene. Si capisce che voler bene non è un sentimento, non è un’emozione, ma è un atto di volontà. Volere il bene dell’altro. Uscire da se stessi, pur rimanendo se stessi, per andare incontro all’altro.
La comunità è dunque il luogo delle relazioni, nel quale si impara a vedere l’altro e a volere il suo bene, a praticare quell’amore gratuito (agape) che rende puri (ed efficaci) i pensieri, le parole, le azioni.
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