MINIMO SINDACALE NO GRAZIE

di Ruggero Mariani

Accontentarsi di “far quel che si può” è solo una rassicurante autoassoluzione. Tre antidoti per resistere all’“imborghesimento”

  

«Quello che io faccio, tu non ora non lo capisci; lo capirai dopo. E, se non ti laverò, non avrai parte con me».

Mi risuonano frequentemente queste parole rivolte da Gesù a Pietro, poiché non sempre riesco a stare sul pezzo, a decifrare immediatamente tutto, anzi. Più spesso mi capita di afferrare il senso profondo delle esperienze che la vita mi mette davanti soltanto dopo, molto tempo dopo. E, intendiamoci, anche Pietro e gli altri discepoli sono campioni, in questo. Ci arrivano dopo, sempre.

Mi è capitato ancor di più in questo tempo, critico e parimenti inedito, nel quale i cambiamenti inferti dalla pandemia perdurano inesorabilmente nella quotidianità del servizio. Un tempo “compr(om)esso” negli spazi e nelle relazioni, che ci ha costretti a fare quel tanto che si poteva, a mettere il motore al minimo se non ci riusciva di rielaborare velocemente, in un contesto così fragile e mutato, una proposta educativa adeguata.

E subdolamente si è insinuato un dubbio: dire o non dire a me stesso se l’esser riuscito a fare quel poco di scautismo e nulla più, sia stato realmente il massimo nelle mie possibilità, oppure sia stato in verità solo una rassicurante autoassoluzione per non essere andato oltre la mia comfort-zone, per “accontentarmi” spegnendo il cervello e prescindendo, paradossalmente, dalla situazione in atto: pandemia come scusa?

Impigrito e imborghesito nei miei pannicelli caldi, ho iniziato a riflettere sul mio modo di essere e di pormi come capo di fronte alla realtà, e su come il presente cambiamento di epoca si stia ripercuotendo, nei suoi effetti sociali, anche su di me, nel bene e nel male. E ho dovuto lavorare non poco per tornare a me stesso, alla fonte della mia autenticità che, ormai un po’ di tempo fa, mi ha fatto dire “eccomi” nella scelta di servire i più piccoli, di partecipare alla loro crescita. Già. Partecipare, cioè prendere parte attiva, incisiva, in un orizzonte liquido, dove le cose sembrano perdere di senso.

Sono affiorati tre pensieri: il primo, è che si è sempre contemporaneamente padri e figli delle scelte che si fanno. Se siamo capi è perché crediamo che la particolare via dello scautismo nell’oceano dell’educazione sia una bella via e un’alta disciplina da rivolgere alle generazioni più giovani; un atto d’amore per aiutare i ragazzi a crescere aprendosi al mondo e alla vita.

 Il secondo: come Dio agisce in me. Di fronte alla situazione inedita, è Egli stesso che mi offre gli strumenti per agire: lavare i piedi, cioè sporcarsi le mani nel servire, è il gesto che risolve l’impasse, l’unico che mi consente di prendere parte con Lui, di partecipare alla gioia del mio Signore. Scuola di Servizio, altro che scautismo di facciata.

 Terzo: “L’appartenenza non è un insieme casuale di persone, non è il consenso a un’apparente aggregazione; l’appartenenza è avere gli altri dentro di sé” cantava Gaber, e quanto è vero. Essere capi in AGESCI vuol dire aver fatto una scelta insieme ad altre persone, partecipando alla costruzione di un’identità che, in qualche modo, abbraccia e supera insieme il mio piccolo punto di vista. Un’identità non gassosa, ma dai caratteri ben definiti, una visione del mondo precisa – cioè “di parte”, qualora dovessimo dimenticarlo -, che è emersa potentemente nei giorni dell’unanime cordoglio tributato al presidente del Parlamento europeo David Sassoli, nel gennaio scorso. Dall’intensa omelia del cardinale Zuppi, dalle parole commoventi dei familiari a quelle del mondo politico, sono coralmente emersi i tratti di un umanesimo cristiano che ci appartiene, partecipativo, per il quale è impossibile non riconoscersi come capi in AGESCI. «Non un funerale ma un manifesto politico», ha commentato Massimiliano Smeriglio, eurodeputato non credente. «Il manifesto di un movimento politico e sociale, quello del cattolicesimo democratico, che combatte, sogna e ragiona. Che non ha paura della propria idealità e che attraversa il mondo con la forza della mitezza, della sobrietà, della radicalità del messaggio evangelico. Sempre dalla parte degli ultimi, sempre dalla parte della persona, della complessa dimensione umana.  Una lezione di stile, una lezione collettiva, dalla parte dell’umanità senza cattedra, […] patrimonio di parte e di tutti».

Una testimonianza da tenere stretta per tutte quelle volte in cui guardandoci l’ombelico faremo finta di credere che quello possa essere il centro del mondo: «Avrai parte con me?».

 

[Foto di Nicola Cavallotti]

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