Prima si progetta: si legge il contesto, limiti e possibilità, si fissano alcuni bisogni per poi muovere con “intenzionalità” i nostri sforzi verso un cambiamento desiderabile. Ma: il mondo cambia in fretta, noi stessi cambiamo in fretta; la Comunità capi di oggi non è quella dell’anno scorso e probabilmente cambierà anche l’anno prossimo; i ragazzi e ragazze ci sembrano a volte distratti e attirati da mille stimoli; i valori su cui abbiamo fondato la nostra vita (forse) non sembrano essere attuali o attraenti.
– Ha ancora senso progettare?
«I nostri progetti sono bellissimi: abbiamo ideali, fissiamo obiettivi e cerchiamo di applicarli alla realtà. In genere progettiamo per avvicinare la realtà ai nostri ideali. È un modo di procedere profondamente ispirato dalla nostra cultura, dalla razionalità occidentale, ma non è l’unico modo. Altre culture concentrano la propria attenzione non tanto sul punto di arrivo ideale ma sul punto di partenza, sulla situazione concreta. Più che prefigurare scenari ideali si cerca di conoscere nel modo più approfondito possibile il reale in cui si è immersi, per cercare di capire come si può trasformare. Abbiamo bisogno di concretezza, di mete chiare e raggiungibili, di utopie con la “u” minuscola, ma non meno ispiranti. Per dirla con uno slogan abbiamo bisogno di “Mete e non Miti”».
– Partire dalla realtà vuol dire forse anche vedere che è composta da molti fattori, da attori diversi e che noi siamo una parte della realtà.
«La progettazione si fonda sulla capacità di capire innanzitutto quali siano le forze realmente in campo traducendole in elemento strategico. Nella sua essenza il progetto è una forma di anticipazione, di prefigurazione del futuro, ma con i piedi ben piantati nel presente, nel “qui e ora” in cui lo stiamo costruendo. In campo sociale e educativo oggi un progetto non può che essere partecipato, non può che chiamare in causa direttamente le persone e i gruppi a cui si rivolge. Dobbiamo imparare ad allearci con le comunità di riferimento dei nostri progetti, a svilupparli insieme a loro».
– Si progetta partendo dalla realtà: è un approccio che ricorda il nostro “ask the boy”, il partire dalle domande dei ragazzi e delle ragazze che sono con noi. Quali sono le domande da cui partire?
«Conosco educatori che, quando progettano con un gruppo nuovo di ragazzi, partono da domande come “Quali sono i pezzi che ti piacciono di più in questo periodo? Cosa ascolti? Cosa ti emoziona di più? Cosa ti fa più felice? Cosa ti fa stare più bene? Come mai ti emoziona questa canzone?”. Si pesca dall’immaginario e nel personale affettivo di ognuno. Un’altra cosa molto potente sono le parole: il pedagogista brasiliano Paulo Freire ha sviluppato un approccio dialogico basato sui “temi generatori”, cioè su quelle tematiche che maggiormente segnano il rapporto delle persone con sé stesse e con il contesto in cui vivono. Progettare a partire dall’individuazione dei temi generatori più sentiti dai ragazzi contemporanei regala slancio e profondità: non è l’obiettivo, ma la partenza, per vedere che bisogno esiste sotto. Oggi è necessaria una pedagogia delle emozioni e degli effetti perché sovente si respira un clima di aridità effettiva».
– Per quanto tempo può essere attuale un progetto? Quanto va rivisto strada facendo? Ha ancora senso definire tempi lunghi in un progetto?
«Una sera ho dormito su un’isola dove si trova un monastero galleggiante, sul lago Inle. Ho parlato con un giovane monaco buddhista birmano: gli parlavo delle mie fatiche e frustrazioni, mi chiedevo cosa mai potesse comprendere di un mondo così distante dal suo. A un certo punto però mi ha detto una cosa che mi ha segnato: quello che conta è “coltivare l’intenzione”. Ci sono i momenti della capacità positiva e ci sono i momenti della capacità negativa. Ci sono i momenti in cui i processi attivati dal progetto accelerano (e non è detto che dipenda da noi) e ci sono i momenti in cui i processi rallentano. Quando accelerano si corre, quando rallentano, ci si ferma. Il modo di procedere dei progetti sociali è più a “zigzag” che lineare, non di rado è ricorsivo, si fa un passo indietro per poterne fare uno avanti. Questo non è un difetto del nostro progetto ma la natura stessa del sociale, dell’umano. Nei progetti ipotizziamo sempre una scansione temporale, ed è bene avere un’intenzione di medio-lungo termine (l’intenzione, appunto); dobbiamo essere consapevoli che le grandi questioni di cui vogliamo occuparci sono esposte continuamente a forze che le influenzano e le fanno cambiare, a volte in senso favorevole alla nostra intenzione altre volte in senso sfavorevole, e il nostro procedere è reso più difficile. Ci può essere un salto iniziale e poi per sei mesi può essere che non succeda niente. Nel frattempo, però, si coltiva l’intenzione; avere quindi una dimensione di medio-lungo termine oggi serve per poter tenere una prospettiva ed essere pronti ad accogliere il ritmo degli eventi».
Ennio Ripamonti
Psicosociologo e formatore. Da oltre vent’anni si occupa di programmi di sviluppo di comunità nel campo delle politiche di welfare, prevenzione, cittadinanza attiva, rigenerazione urbana e politiche giovanili. È docente presso l’Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano e la Supsi di Lugano, presidente della società di consulenza Metodi, socio fondatore dell’Istituto Paulo Freire Italia, membro del comitato di redazione della rivista Animazione Sociale e del comitato scientifico dell’Istituto Italiano di Valutazione. Fra i suoi libri Collaborare (Carocci) e Età della vita e Formazione, con A.M.Mariani (Unicopli).
[Foto di Alessandro Gregnani]
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