Non fu così semplice comprendere la motivazione di una così diversa visione della presenza degli adulti nello scautismo. Ancor più complesso fu riuscire a darne spiegazione alle Associazioni. Erano i primi anni ’70. Parliamo dell’Agi e dell’Asci nei tempi coincidenti con la loro fusione. Nei tempi della rivisitazione del metodo delle tre Branche per una “proposta unificata” e della composizione delle comuni strutture decisionali e di partecipazione a tutti i livelli. Un vortice di nuove idee e considerazioni nel fare e pensare lo scautismo.
Ce ne era per tutti. Anche per chi poco tollerava i possibili cambiamenti in ciò che era “sempre stato così”. Nacque una dissidenza nello scautismo cattolico: nella storia del cristianesimo siamo stati talvolta più riconoscibili per la capacità di separarci che non per quella di cercare unità. Ma tant’è!
Se poi a tutto questo si unisce un nuovo modo di vivere ed intendere la Chiesa, il quadro potrebbe sembrare completo: l’onda del Concilio Vaticano II stava passando su ogni credente e comunità.
Ma qualcos’altro, in quel periodo segnò in modo indelebile il Guidismo e Scautismo italiani, qualcosa che ancora oggi stentiamo a comprendere fino in fondo, o – opinione personale – ancora non abbiamo compreso. Mi riferisco alle motivazioni profonde che spinsero alla creazione delle comunità capi e, soprattutto, alla visione diversa che da essa derivava sull’organizzazione e struttura dell’Agesci.
La figura di capo che B.-P. presenta nei suoi testi è quella di una persona impegnata nel rapporto con i ragazzi in modo diretto, responsabile e quasi esclusivo. La relazione capo-ragazzo – diremmo oggi – è un elemento portante dello scautismo. B.-P. ce ne parla con enfasi e precisione e definisce delle caratteristiche dell’educatore che oggi ancora citiamo come fondamentali e di riferimento. Lo sguardo del capo è rivolto ai ragazzi e all’applicazione del metodo così come lo conosciamo ed adattiamo.
“Non è più possibile fare il capo da solo”: così titolava un documento della Formazione capi nazionale e dell’allora “Comitato centrale” nel 1975. In esso si prendeva atto che la complessità dei problemi che segnavano l’educazione richiedeva non più soltanto una qualificata risposta metodologica, non più soltanto una persona e uno staff di Branca competente sul piano del “cosa fare e come organizzare”, non più una “Direzione o Consiglio di Gruppo o di Ceppo” luogo di organizzazione programmazione, ma una “comunità” di “capi”, struttura di formazione permanente e progettazione pedagogica sull’intero gruppo. Non più quindi il capo da solo – o in staff – a fare educazione, ma un’intera comunità responsabile di quell’atto educativo che si svolgeva.
Non si pensava più quindi a delle unità che formavano un Gruppo, ma ad un Gruppo che formava delle unità. Non c’erano più dei capi appartenenti solo a degli staff, ma dei capi parte di una comunità che si strutturava in staff per svolgere con le attività nelle Branche il proprio progetto educativo. Non più, allora, un progetto educativo somma di progetti di unità, ma un unico progetto educativo che nasceva da una comune analisi di ambiente svolta dall’intera comunità capi come struttura dell’Agesci in un luogo specifico. Non più quindi soltanto una formazione capi episodica con diverse fasi, livelli ed esperienze (campi scuola), ma anche, e soprattutto, una “Formazione permanente” degli adulti educatori nelle comunità capi.
Fu la prima volta che lo scautismo pensò ad una sua espressione particolare per i suoi adulti presenti in servizio educativo. La comunità capi fu pensata e voluta soprattutto come una “struttura formativa” per educatori adulti. Non si trattava naturalmente di una formazione metodologica, ma soprattutto di una formazione di natura motivazionale e di carattere finalizzata all’educazione dei ragazzi.
In una parola si diceva e credeva che un adulto non può essere educatore e testimone, maestro e fratello nella crescita – pur su un piano diverso – se questa crescita in lui è inaridita. E chi o cosa più di una comunità può aiutarlo, sperimentarlo, correggerlo ed indirizzarlo nel continuare il suo cammino?
L’educazione non è soltanto azione, ma soprattutto relazione arricchente tra persone di diversa età che crescono nella stessa dinamica: il metodo è lo strumento utilizzato per rendere attiva ed attraente la relazione, la formazione del capo è per renderla feconda.
Questa nuova visione generò un modo diverso di vedere e concepire l’intera Associazione.
La nascita della comunità capi ha introdotto nell’Associazione un’idea di scautismo proveniente dal basso verso l’alto secondo uno schema molto diverso da quello originariamente pensato. Non mi riferisco qui a B.-P. La comunità capi non è assolutamente in contrasto con i suoi principi, anzi rafforza la qualificazione dei capi in vista di una relazione capo-ragazzo di livello più elevato da un punto di vista educativo. Mi riferisco invece all’organizzazione dell’Associazione.
Prima della fusione le occasioni – il flusso delle idee – erano maggiormente rivolte dall’alto verso il basso, poi, con il vento della “partecipazione” e della “democrazia associativa”, si iniziò a pensare luoghi di dibattito e decisione sempre più ampi perché rappresentassero un possibile flusso dal basso verso l’alto. I canali fondamentali di partecipazione dei capi erano gli eventi di Branca.
Ogni Branca, sul piano nazionale soprattutto, approfondiva temi diversi, in tempi e modi diversi. Molti si chiedevano in certi momenti, a torto o a ragione, se l’Agesci non fosse diventata una “federazione di Branche”. Il fenomeno era comunque chiaro ed evidente a tutti.
Ma come poteva questo schema dello scautismo conciliarsi con una visione più globale e progettuale dell’Associazione? Come far sentire ai capi la comunità capi luogo ed esperienza della propria formazione globale ancorché personale? Come far sentire la comunità capi il supporto più immediato e diretto alla loro azione?
Come in un immaginario tiro alla fune negli anni si parlò di una centralità della comunità capi nella progettazione ed azione educativa; di una figura centrale dell’Animatore di comunità capi nella formazione permanente delle risorse adulte nello scautismo; di supporto delle Zone all’azione delle comunità capi e degli animatori; di una revisione del ruolo dell’Animatore come capo Gruppo; di una riforma che spostò gli incaricati di Branca fuori dai comitati; ma…
Ciò che in fondo non è cambiato è che l’appartenenza dei capi all’Associazione continua ad essere, nonostante tutto, maggiormente sentita attraverso le Branche che non attraverso le comunità capi. Sul piano pratico potremo affermare che i capi sono molto più interessati alla conoscenza e pratica del metodo utile al proprio servizio quotidiano che non alla propria formazione e crescita personale.
Ciò che invece non è stato completamente introdotto, è la grande differenza tra la pedagogia, il metodo e gli strumenti di quest’ultimo. La comprensione delle differenze tra questi tre elementi favorisce la comprensione dei compiti ed ambiti che dovrebbero segnare la vita dell’Associazione per coerenza con le sue scelte e la sua storia.
L’ambito della Pedagogia è quello dei luoghi di pensiero, cultura, progettazione, nonché realizzazione di coerenti eventi; dello studio e pubblicazione per gli adulti. Un ambito strettamente connesso all’indirizzo valoriale e degli obiettivi utili per la proposta educativa dell’Agesci. Qui si risponde alla semplice domanda “Cosa fa l’Agesci e perché lo fa”.
L’ambito del metodo è il regno delle tre Branche. E’ qui che i capi unità affinano le capacità di applicazione ed attualizzazione del metodo scout e si chiedono come il metodo, caratteristico di Branca, possa essere supporto e cinghia di trasmissione dei contenuti e valori del progetto delle comunità capi nei confronti dei ragazzi attraverso le attività. Il luogo delle Branche è il luogo dei ragazzi dell’Associazione.
L’ambito degli strumenti è il luogo in cui il metodo entra, tramite le capacità di animazione dei capi ed il protagonismo dei ragazzi, nell’esecuzione di attività, esperienze, scoperte, avventure tipiche dello scautismo. La bontà delle esperienze e la capacità di gestione dei capi sono il punto di partenza ed il laboratorio educativo in cui l’attività diventa educazione.
Il volere i capi in comunità educanti per loro e quindi per i ragazzi, porta a una visione precisa dell’azione nei Gruppi dell’Agesci ma anche, di tutta la struttura di supporto di Zona, Regione e nazionale .
Riusciremo a far sentire dietro ogni capo l’Associazione come un sostegno più che come un peso? Riusciremo a ridare ruolo, identità, considerazione ed azione alla comunità capi. Sarebbe, a mio avviso, un vero investimento per l’Agesci dei prossimi decenni.
Riusciremo a far sentire dietro ogni capo l’Associazione come un sostegno più che come un peso? Riusciremo a ridare ruolo, identità, considerazione ed azione alla comunità capi. Sarebbe, a mio avviso, un vero investimento per l’Agesci dei prossimi decenni.
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