Libera e sovrana

di Vincenzo Pipitone

“L’emblema più alto dell’umanità sarebbe stato un domatore da circo con la frusta, e non un profeta che ha sacrificato se stesso”.  Il Dottor Zivago, Boris Pasternak.

 

Si dice che gli antichi ateniesi inventarono la democrazia, quel sistema in cui tutti (in realtà, non proprio tutti) partecipavano alle decisioni. Con il termine democrazia, nell’età moderna, si intende un sistema di rappresentanza indiretta, rappresentativa. Noi tutti cittadini elettori – in Italia – eleggiamo i nostri rappresentanti che, grazie al mandato ricevuto, agiscono senza alcun vincolo in nome e per conto del popolo tutto. Qualcuno si chiederà cosa lega il “tema Comunità capi” con la democrazia. Proviamo a essere chiari.

 La nostra associazione, sin dalle sue origini, si è sempre interrogata sui temi della rappresentatività, tentando di avvicinare i livelli associativi (dalle Comunità capi al Consiglio generale) attraverso strumenti democratici che consentissero di dare voce a tutti i capi e, perché no, ai nostri ragazzi. Potevamo ideare una realtà che, dal vertice, disponesse per tutti; oppure un mondo associativo con realtà capaci di autodeterminarsi e con strutture a servizio delle stesse realtà (che noi chiamiamo Comunità capi). Non vi pare che il tema ci coinvolga come capi dell’AGESCI, così come da cittadini ci coinvolge il tema della democrazia? Pare proprio di sì. 

La Comunità capi è una nostra invenzione e quando l’abbiamo inventata, probabilmente, ci siamo lasciati ispirare dal nostro sistema costituzionale, immaginando comunità di donne e uomini al servizio del loro territorio attraverso il metodo scout, donne e uomini che, utilizzando strumenti democratici, partecipano alla vita associativa ed eleggono chi deve fornire loro gli strumenti adatti a sostenere l’azione educativa. E così abbiamo inventato anche la Zona, il livello regionale, quello nazionale, i consigli. In particolare, con le due riforme Giotto (1990) e Leonardo (2016) siamo stati chiamati a decidere quale associazione sognavamo. Qui non possiamo entrare nel merito delle due riforme (Documenti preparatori 1 CG 1990 pagg. 26-39; Documenti preparatori CG 2016 pag. 32-36), ma possiamo certamente affermare che l’idea fissa, irremovibile, da cui l’associazione tutta è partita è una sola: al centro dell’AGESCI vive la Comunità capi, unica realtà che, attraverso un proprio Progetto educativo, interviene sul proprio territorio, del quale conosce rischi e opportunità. Tutto questo lo fa in autonomia, non solo economica, ma soprattutto nella scelta degli strumenti educativi. Sì, è vero, esiste un metodo, ma anche in questo caso è la Comunità capi che se ne fa garante. E, a ben vedere, anche il metodo non ci è imposto: ce lo siamo dati. È la Comunità capi che ha ben chiaro quali siano le esigenze dei propri ragazzi, i loro talenti, le loro difficoltà. È la Comunità capi che si conosce! Intendiamo dire che si tratta di una comunità in cammino, consapevole tanto dei propri pregi, quanto delle proprie fragilità. La fiducia sconfinata nelle Comunità capi non è scontata. Avremmo potuto ideare un mondo diverso, con responsabili di zona che nominavano i capi gruppo. Potevamo ideare organi garanti del metodo, con poteri di controllo più o meno incisivi. E, invece, ci siamo fatti orientare dalla nostra costituzione (a tal proposito vi invitiamo a leggere Atti CG 2017 pag. 85-89 Lele Rossi”). 

Poi… poi è accaduto l’inimmaginabile! La pandemia, tutti chiusi in casa, sedi chiuse, angoli di squadriglia abbandonati, scautismo a distanza. In seguito, pian piano, siamo ritornati a una vita un po’ più ordinaria e qui… la nota dolente. Mentre alcune comunità si sono fatte guidare dall’estote parati, altre erano paralizzate dagli eventi. Nessun giudizio, nessuno di noi può permettersi di dire chi ha fatto bene e chi no. Innanzitutto, perché siamo stati costretti a vivere un’esperienza straordinaria e poi perché, se è vero che le Comunità capi conoscono le proprie debolezze e le proprie potenzialità, “chi sono io per giudicare?”. 

Tuttavia, abbiamo toccato un nervo scoperto. A un certo punto, alcuni di noi attendevano dall’alto direttive specifiche su come e quando fare attività. Improvvisamente, tanti di noi hanno atteso indicazioni sul “se incontrare i ragazzi” e per molti è stata la paralisi. Ma non avevamo deciso che le Comunità capi avessero una forte autonomia nelle scelte? Non era la Comunità capi l’unica realtà capace di discernimento? 

A un certo punto (perdonerete la generalizzazione), abbiamo avuto la sensazione che la paralisi non fosse stata causata dalla pandemia, ma dalla paura della nostra libertà. Alcune incessanti richieste di specifiche indicazioni facevano a pugni con il nostro senso di responsabilità. La libertà ci ha angosciato, paralizzato, interrogato. Ci siamo sentiti tanti “Adamo” che nel giardino dell’Eden sperimentavano l’angoscia della libertà, di dover scegliere cosa è bene e cosa è male. Avremmo voluto che i divieti o i permessi provenissero dai responsabili di zona, dalla Capo Guida, dal Capo Scout, dai Presidenti, non da nostre scelte ben ponderate, valutando strumenti e possibilità. Come direbbe Pasternak, probabilmente avremmo voluto “un domatore da circo con la frusta” tradendo così lo spirito associativo “che tutto move”.

[Foto di Nicola Cavallotti]

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