Martina è seduta da ormai dieci minuti davanti alla sua gavetta di pomodori rossi, tagliati grossi, poco conditi e gocciolanti. Gli altri si sono già alzati, qualcuno sistema come riesce la gavetta nello zaino «che tanto la lavate a casa domani», qualcuno si rincorre nel salone, qualcun altro fa la coda per il bagno. Tutti sono liberi di fare ciò che vogliono, è tempo di siesta. Lo si capisce dal festoso chiasso che rimbomba nel salone. «Non urlate!», Grida Bagheera abbastanza nervosa.
«Martina sei ancora lì? Ci vogliono due minuti a mangiare tre pomodori, sbrigati, così vai a giocare!». È che a Martina i pomodori non piacciono. «Mi fanno venire da vomitare», dice piano. «Non è mai morto nessuno per tre pomodori, su Martina, sei anche grande».
Ma è vero che le fanno venire da vomitare, da quella volta alla scuola materna che li aveva mangiati e poi era stata male. Aveva passato a letto un paio di giorni. Mamma le aveva spiegato che non era colpa dei pomodori, ma della sua pancia che non stava tanto bene per un virus, ma insomma, lei quei pomodori li aveva vomitati e il solo odore le dava fastidio. E poi sti pomodori ci sono sempre in Branco. E ogni volta è la stessa storia. Deve finirli. Deve assaggiarli. Almeno due o tre. Sei anche grande Martina.
Le sembra di essere seduta lì da una vita. Ogni tanto arriva qualcuno dei Vecchi Lupi a verificare a che punto siano i pomodori nel piatto e Martina immagina spariscano da soli o possano improvvisamente finire nella sua pancia senza passare dalla sua bocca. Ma niente, sono sempre lì. «Martina, dai. Fai finta che siano un’altra cosa e mangiali, bevici su un po’ d’acqua della borraccia e in un attimo hai finito». Fosse facile, fosse così facile.
Martina prende la forchetta, taglia un pezzetto di pomodoro, lo guarda e solo alla vista di quei semini verdi la pancia le si stringe forte forte. Lo porta alla bocca, sembra un viaggio infinito, due grosse lacrime le scendono per le guance. Lo caccia in bocca, si attacca alla borraccia e lo butta giù intero. Pensa che a casa mamma e papà i pomodori non glieli fanno mangiare, perché non importa se non ti piacciono Marti, ti piacciono un sacco di altre verdure!
«Brava Martina! Ci voleva tanto? Hai visto che ce l’hai fatta!». La voce di Akela è un misto tra trionfo e sollievo. Ma Martina non si sente sollevata nemmeno un po’. Mancano quasi tre pomodori interi. Alla fine di quella lunghissima cena il suo stomaco sarà un lago d’acqua in cui sguazzano pezzi di pomodori rossi, tagliati grossi, poco conditi. E non di stagione. Ma almeno questo Martina non lo sa.
Luca ha 15 anni, è capo squadriglia dei Falchi quest’anno. Una vita regolare, una famiglia normale, a scuola va bene. Abbastanza dai, non bene come quando era alle medie, ma al liceo scientifico è un’altra storia. E poi a 14 anni la testa gira, i pensieri sono un vortice ogni tanto, incontrollabile. La testa pensa una cosa e il corpo ne fa un’altra. L’eccitazione che corre lungo le vene sembra faccia di tutto per farsi seguire. Luca ragiona con la tua testa. Sì, mamma... I suoi glielo ripetono sempre. Ma a lui sembra di ragionare con la sua testa, ma spesso si sente dire che non è così. Evidentemente loro lo sanno meglio. O forse loro ragionano con la propria testa e pretendono di sapere come ragioni la sua. Un bel rompicapo. Comunque al campo estivo si sta divertendo, la squadriglia sta funzionando e hanno pure vinto la gara di cucina, strappandola alle Pantere che vincono sempre. Se pensa a cosa potrebbe accadere quella stessa notte poi, non sta nella pelle. È d’accordo con Federica, la capo squadriglia delle Pantere, che faranno un giro in tenda da loro. Quando i Capi saranno a letto. Hanno escogitato un piano perfetto. Luca è anche riuscito a nascondere due micro lattine di birra miracolosamente scampate all’ispezione. Nulla di che, due birre e due chiacchiere. E Federica che oh, è proprio carina (forse Luca non ha proprio pensato carina, ma va bene così) e quando c’è lei vicino a lui è un casino. Più casino del solito.
Il mattino dopo sono in cerchio, presto, in uniforme. Luca e i suoi squadriglieri hanno saltato la colazione. Anche Federica e le Pantere. Li hanno beccati. Sa che probabilmente i capi gli faranno il mazzo (non che abbia pensato proprio mazzo, ma va bene così anche questa volta) e okay, hanno un minimo ragione, ci sta. Non volevano fare nulla di male. Ma vaglielo a spiegare. A pensarci bene non è che ci sia stato proprio modo di spiegare. Anzi non c’è stato modo di far nulla, se non correre in maglietta per mezz’ora alle 4 di notte, tentare di riaddormentarsi con un freddo allucinante addosso che nemmeno indossando il pile nel sacco a pelo è cambiato molto, e scattare veloci alla sveglia che già sono incazzati (e qui Luca ha proprio detto così). Niente colazione. Che a 15 anni quando ti mangeresti due etti di pasta appena sveglio non è proprio il massimo, ma pace, arriverà il pranzo, si spera.
Eppure c’è un’aria strana. I capi sono rigidi, tesi, un po’ impostati. Sarà più lunga del solito, pensa Luca. Fanno il suo nome, davanti a tutti. Poi quello di Federica, le Pantere, le birre, la tenda, la responsabilità, di notte, la fiducia, ci hai delusi, come hai potuto, che esempio sei, da oggi, caposquadriglia, Matteo. Eh? Luca non ci ha capito molto, ha perso il filo del discorso per l’imbarazzo (anche se ovviamente quelli come lui lo nascondono alla grande l’imbarazzo), la rabbia e un po’ di paura, sottile, subdola, là sotto, da cacciar giù con ancora più rabbia e violenza.
Insomma, non ha più la loro fiducia. Il caposquadriglia sarà Matteo, il suo vice. Perché lui è rimasto in tenda a dormire. Ha rispettato le regole. Luca è sconvolto, anche se quelli come lui ovviamente non si sconvolgono mai, ed è così sconvolto che fa la cosa che gli riesce meglio: l’espressione del chissene (che in gergo tecnico ha un nome più colorito che ciascuno può scegliere secondo la propria sensibilità), non ve la do la soddisfazione, prendetevi le striscette dalla mia camicia, dategli il guidone, la mia voce nell’urlo di squadriglia e tutto il resto. Non me ne frega nulla. Manco di voi. Manco del reparto. Manco del resto. Non me ne frega niente di niente. La cosa che lo fa più incazzare però è che quel piano lui e Matteo l’avevano condiviso nei dettagli. Matteo era d’accordo. Ma era crollato. Luca l’aveva chiamato cento volte al momento di uscire, ma non era riuscito a svegliarlo. L’aveva lasciato dormire. Ci sarebbe stata un’altra occasione per far casino insieme. E invece. Ovviamente Matteo non l’aveva detto ai capi. E ora era il caposquadriglia al suo posto. Luca era stato sul punto di tradirlo. Ma no, non sono uno stronzo io, aveva pensato. E poi non me ne frega niente. Punto. Se lo ripeteva di continuo in testa, aveva bisogno di convincersene, mentre le sentiva le lacrime che potevano arrivare, ma non ve la do questa soddisfazione, manco morto.
Io vorrei abbracciarli Martina e Luca, e anche un po’ Federica e Matteo. Vorrei abbracciarli anche se so che non esistono. Ma forse nelle loro storie c’è qualcuna delle storie apparentemente normali che capitano nelle nostre unità. Perché capitano e lo sappiamo. Capitano perché le facciamo capitare noi però. Capitano perché a volte di fronte allo strappo, di fronte a chi non rispetta le regole, di fronte a chi va fuori rispetto a ciò che noi riteniamo essere l’ordine giusto delle cose ci sentiamo destabilizzati. A tratti disarmati. Sentiamo la nostra autorità messa in discussione. Esposta. Vacillare. Forse non sappiamo che risposta dare. Forse non sappiamo come gestire queste situazioni e usiamo l’unica cosa che da adulti pensiamo di avere: il potere. Il potere di decidere chi merita di mangiare e chi no. Il potere di dare e togliere la fiducia. Il potere di dimenticarci dei diritti dei bambini e dei ragazzi. Il potere che ci serve per ristabilire l’ordine, a senso nostro, di riaffermarci come capi, come adulti, come garanti. Il potere di sentire che tutto è a posto, grazie a noi. Integri, ineccepibili, credibili.
Più di una volta i capi branco mi hanno risposto che del resto lo dicono anche Le storie di Mowgli: “La punizione salda tutti i debiti”. Con buona pace di Gesù, rispondo io. Che in effetti è stato crocifisso perché ha passato il tempo a elargire punizioni a peccatori, prostitute e compagnia bella. Perché è questo il cuore del messaggio evangelico: che punire mette a posto tutto. È questo il cuore anche dell’approccio del nostro Stato: stai in carcere vent’anni e siamo a posto così. Chissenefrega della rieducazione, del reinserimento nella società, dell’imparare un mestiere che sia punto di partenza domani.
La punizione non salda un bel niente. Ci mette solo in pace perché abbiamo gestito una situazione. La punizione umilia, allontana dalla comunità, etichetta, fa fare mille passi indietro nella fiducia condivisa, non parla il linguaggio dell’amore. La punizione non rende giustizia a chi ha subito un torto, non restituisce una perdita a chi l’ha vissuta, non rende migliore chi ha sbagliato, non fa crescere la comunità in alcun modo.
Chi sbaglia ha bisogno di amore. Più degli altri. Chi sbaglia ha bisogno di perdono. Chi sbaglia ha bisogno di essere ascoltato, di capire dove ha sbagliato, di impegnarsi a far meglio domani, forte della fiducia che chi dice di volergli bene avrà il coraggio di rinnovare in lui. Chi sbaglia ha bisogno di trovare l’occasione per raccontarsi agli altri in modo migliore rispetto al suo errore e non di essere marchiato per quell’errore. O isolato e sbattuto in prima pagina per dar testimonianza agli altri.
E allora saldiamoli con l’amore i debiti, rendiamoci simili a Gesù, assumiamo il suo stile nell’essere capi, che mi sembra sia il migliore e che non possa essere equivocato. Abbiamo il coraggio di non aver paura che lo strappo fratturi la comunità e che il collante necessario siano la punizione e la paura, perché in fondo sono “tre le cose che rimangono: la fede, la speranza e la carità; ma di tutte più grande è la carità”. La fede in Cristo, che ci ha affidati quei ragazzi che sono suoi. La speranza del domani, nel Regno che avremo costruito in Terra anche grazie alle fratture guarite con un’altra possibilità. La Carità. Quell’Amore che dobbiamo avere il coraggio di scegliere. Sempre.
[Foto di Gianfranco Simeone]
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