In diarchia a scuola di relazione

Che senso ha oggi la diarchia nella nostra Associazione? E’ una domanda che mi sono sentita rivolgere molte volte e alla quale mi piacerebbe poter rispondere con l’autorevolezza che ho percepito un giorno nelle parole di Claudia Conti (figura decisiva nel momento della fusione dell’Agi con l’Asci):

“La diarchia non è stata una scelta dell’associazione, non ricordo di aver mai discusso su questo argomento … ci siamo arrivati naturalmente, è stato lo sbocco naturale di un processo”.

La scelta pedagogica della coeducazione ha portato con sé la necessità di una condivisione della responsabilità educativa tra uomo e donna nella conduzione delle unità; per una volta vorrei lasciare da parte la difficoltà che si vive nelle nostre comunità capi per garantire questa presenza e soffermarmi sulla ricchezza che ne deriva. Per quanto mi riguarda posso dire che di tutti i doni che ho ricevuto dall’esperienza del servizio in Associazione, quello della condivisione della responsabilità educativa o formativa con un’altra persona diversa da me (a partire dalla differenza originaria di genere) è sicuramente tra i più preziosi. Questo tipo di condivisione ci mette di fronte alla sfida dell’ascolto e del rispetto e all’opportunità di costruire una proposta che nasce dall’incontro di diverse sensibilità.

 “Che belle le vostre facce prima della partenza per l’hike… il sorriso fiero e l’euforia negli occhi di Mario che sognavano una grande avventura per ognuno di noi in contrasto con la preoccupazione che si leggeva nel tuo sguardo intenso e carico di raccomandazioni silenziose. Mi avete fatto sentire bene.”

Ogni tanto queste parole, con cui un rover mi ha salutato alla fine di una Route di Orientamento, mi tornano in mente e mi fanno pensare. Le nostre strade si sono incrociate solo per il tempo di una route … eppure ci siamo incontrati davvero. La relazione educativa è un luogo in cui si fa un’autentica esperienza dell’altro e uno spazio in cui ognuno rivela anche inconsapevolmente ciò che è: Mario ed io ci siamo rivelati per ciò che eravamo insieme: due capi, due adulti, un uomo ed una donna a cui è stata affidata la responsabilità di un pezzo di strada nel percorso di quel rover; abbiamo accolto questa responsabilità con le nostre risorse, i nostri limiti e le nostre differenze. Forse dai nostri sguardi diversi emergeva anche la fatica di ridurre la distanza sul nostro modo di vedere le cose, sul significato che davamo alle parole e ai gesti, sui rischi che eravamo disposti a correre …

Non serve scomodare la tradizione filosofica o le scuole di pensiero contemporanee per cogliere il legame immediato che c’è tra la definizione dell’identità e l’essere in relazione: non c’è nessuna esperienza umana più importante nel percorso di crescita e di conoscenza di sé di quella che si compie nell’incontro con un altro se ci si lascia interpellare dalla differenza. L’“alterità” che caratterizza la relazione uomo-donna è la più connaturata al nostro essere persone: il confronto con questa “alterità” viene prima di qualunque altro rapporto con ciò che è diverso ed è in questo confronto che si costruisce per lo più la nostra capacità di vivere come arricchimento la presenza dell’altro.

Da questo punto di vista la scelta della diarchia non è solo un valore a cui la nostra Associazione non può rinunciare per il bene che produce in termini di efficacia pedagogica ma è anche o soprattutto un’enorme opportunità per il percorso formativo di un capo. Perché quel rover si è “sentito bene” di fronte alle figure di due adulti che sembravano pensare e sentire in modo così diverso? Il segreto della diarchia sta forse nel rimanere fedeli a se stessi pur nel cambiamento che ogni confronto vero porta con sé; come educatori diamo il meglio di noi quando riusciamo a proporre una strada pensata e condivisa che nasce da diverse visioni. In questo tipo di relazione c’è un valore aggiunto che può dare un senso profondissimo alla fatica e alla bellezza di lavorare insieme, il valore della responsabilità condivisa dell’educazione, che spinge le persone a muoversi con più determinazione nella direzione dell’altro e tende a trasformare in ricchezza ogni differenza. Il “prendersi cura” assieme di un bene che ci è stato affidato potenzia enormemente la nostra capacità di andare oltre noi stessi nell’accoglienza dell’altro e di lasciarci modificare dalla relazione. In questo senso il rapporto che si instaura nella diarchia è caratterizzato dalla reciprocità ovvero dalla scelta del dono di sé come principio della relazione autentica: il “bene superiore” a cui tendiamo insieme ci spinge a mettere a disposizione dell’altro il meglio che abbiamo da dare, nella certezza di uscirne in ogni caso arricchiti. L’alterità intesa come la consapevolezza e il rispetto dello spazio che intercorre tra me e la persona che ho di fronte e la reciprocità (letteralmente “ciò che torna indietro”) sono dunque elementi che caratterizzano la relazione uomo-donna non solo nella responsabilità condivisa dell’educazione; c’è però un terzo aspetto di cui si deve tener conto quando si intraprende l’avventura di provare a lavorare e a crescere accanto e con qualcuno: bisogna fare pace con l’idea che “l’altro” rimarrà sempre tale e che c’è una soglia sulla quale bisogna fermarsi e lasciare spazio al mistero che incontriamo ogni volta che ci avviciniamo ad una persona e ci apriamo alla relazione. Far propria questa “delicatezza”, che ci consente di avvicinarci il più possibile alla comprensione reciproca senza la pretesa di aver capito tutto fino in fondo, fa bene a tutte le relazioni della nostra vita; la consapevolezza che c’è un limite oltre il quale le differenze si possono solo accogliere (o, in rari fortunati casi, amare)  è  davvero una preziosa lezione da apprendere, anche alla scuola della diarchia.

Paola Fedato

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