[di Christian Caleari]
“Solo quando hanno asciugato le caviglie dei fratelli, le nostre mani potranno fare miracoli sui polpacci degli altri senza ferirli”*.
Durante veglia di Pasqua di quest’anno, vissuta insieme alla mia comunità capi, questa frase di don Tonino Bello mi ha aperto il cuore e mi ha aiutato a leggere il nostro “essere comunità” da un punto di vista per me illuminante.
La lavanda dei piedi è il gesto che più di ogni altro racconta cos’è, o cosa dovrebbe essere, una comunità.
Le nostre comunità capi, lo sappiamo, non sono solo “gruppi di persone” che fanno qualcosa insieme. Non sono solo equipe di lavoro, o solo spazi di coordinamento. Sono ben di più.
Certo, la strada è fatta di cose concrete, che richiedono tempo e risorse. Non si contano, nei nostri gruppi, le ore dedicate a trovare un’intesa su questioni di carattere pratico e urgente, a coordinare le attività delle unità, a rispondere a richieste puntuali del territorio, della parrocchia. Ore faticose, perché stare sulla pratica, magari in 20 persone, è cosa complicata. Sono fatiche che insegnano, di per sé, a gestire e a “stare” nella complessità, ci insegnano a praticare la co-gestione, una competenza che può essere messa a frutto in tutte le dimensioni della vita del capo, da quella familiare a quella lavorativa.
Il punto, quindi, non è sottrarre il tempo al “gestire insieme” per fare qualcosa di più alto. No: il punto è chiedersi con quale stile la comunità capi vive anche questi irrinunciabili momenti di “fare insieme”.
E qui le parole di don Tonino ci possono insegnare molto. Nel “fare insieme” non dimentichiamo mai l’importanza della reciprocità. Pensiamo al dare, contribuiamo al raggiungimento dell’obiettivo, ma lasciamo spazio alla reciprocità: nel fare possiamo trovare una straordinaria opportunità di ricevere.
E’ il “come” che può rendere il nostro fare insieme davvero profetico, per il mondo ma anche e soprattutto per ciascun capo che in questa comunità si gioca non solo come ingranaggio di un meccanismo organizzativo complesso, ma come persona unica e in ricerca.
Per noi è infatti del tutto istintivo e coerente con il nostro essere scout: portare in comunità capi lo stile proattivo, intraprendente e pratico dello staff di unità. Siamo abituati a “dare” un contributo, a contribuire alla risoluzione dei problemi mettendo a disposizione e idee e soluzioni possibili. Ma rispetto ad un consiglio di amministrazione, dove più persone offrono la loro competenza per un obiettivo comune, la comunità capi è fortunatamente un luogo dove le stesse persone cercano anche spazi di relazione autentica, esperienze di fraternità, stile di condivisione e di reciproco arricchimento.
Significa che le comunità capi devono diventare gruppi di amici? Non credo, ma rispetto all’insistenza su questo punto di qualche anno fa mi sento di dire che oggi le comunità (e se continuiamo a chiamarle così, un senso ci sarà) devono accettare la sfida di costruire spazi dove, nella pratica del servizio, ci si prende cura gli uni degli altri per costruire relazioni significative. Non siamo professionisti dell’educazione: sono certo che ogni capo sia alla ricerca anche di un luogo dove si sta bene, dove si trova spazio e si lascia spazio all’altro. Dove c’è posto per la sorpresa e lo stupore, per incontri profondi che nascono dall’attenzione verso chi percorre la strada con noi.
Mi capita spesso di pensare all’ottavo articolo della legge: “Sorridono e cantano anche nelle difficoltà”. E penso alle nostre comunità, affaticate (o annoiate) nel bel mezzo di una sofferta riunione tecnica per decidere su orari e mezzi più opportuni da utilizzare per l’uscita di gruppo. Se anche in questo “fare” i capi riescono a sorridere e a divertirsi, allora la comunità diventa luogo dove si fa strada, fuori di noi ma anche dentro di noi, senza rinunciare alla concretezza e senza perdere di vista la meta comune.
Non lasciamo che il nostro servizio diventi “esercizio eroico di conquista”, come dice sempre don Tonino. Perché “il servizio agli ultimi che stanno fuori non purifica nessuno, quando si salta il passaggio obbligato del servizio agli ultimi che stanno dentro”. Nella comunità capi a cui penso, siamo reciprocamente ultimi, ciascuno per l’altro. Fare strada insieme significa prendersi cura, innanzitutto, dei più vicini, per arrivare lontano.
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