Se, come scriveva B.-P., i pionieri sono gli uomini che avanzano all’avanguardia nella giungla come altrove, per aprire una via a quelli che vengono dietro, Gigi Menozzi è senz’altro uno di loro.
Lo storico capo piacentino, attivo da ormai 70 anni, ha aperto molte strade nel corso del suo servizio: a partire dal 1945 quando dopo la caduta del fascismo ha contribuito a rifondare il movimento nella sua città; negli anni Sessanta ha organizzato e poi guidato per 12 anni il Settore Specializzazioni nazionale e per altri 35 anni è stato responsabile della Base di Spettine. Incurante delle sue 87 primavere, l’estate scorsa era in prima linea anche a San Rossore come ideatore della pattuglia che ha realizzato quelle grandi costruzioni che alla Route nazionale erano il segno tangibile che gli scout sanno fare, e non solo parlare. Un punto sul quale Menozzi non transige.
Gigi, come si viveva lo scouting quando hai iniziato tu a fare il capo?
Quando nel primo dopoguerra insieme ad altri ragazzi fui “arruolato” per rilanciare le attività scout a Piacenza, ebbi la fortuna di essere formato allo scautismo così come lo intendeva B.-P. e con la prima squadriglia libera che fondai coinvolgendo la “banda di via Trebbiola”, che scorrazzava in una zona povera della città, facevamo già escursioni nei boschi, attività di orientamento, pioneristica, campismo, mani abili e anche animazione.
Le tecniche sono sempre state importanti?
Assolutamente sì. Il metodo senza le tecniche dello scouting è cieco: la vita all’aria aperta e l’avventura sono il cuore della proposta. Fin dalle origini la competenza tecnica e il saper fare sono state condizioni necessarie anche a svolgere servizio agli altri e strumenti utili alla formazione del ragazzo, per lo sviluppo dell’intelligenza, della salute e del carattere. B.-P. riteneva inoltre che coltivare le abilità dei ragazzi fosse un buon modo per favorirne l’inserimento nel mondo del lavoro, sempre nell’ottica di formare un buon cittadino. Il mondo sta cambiando e questo accade più raramente, ma tutto il resto rimane tale e quale.
Che differenze ci sono rispetta alle attività di oggi?
La differenza più grande è la povertà che c’era allora. In uscita, per dormire in una vecchia tenda dell’esercito Alleato recuperata in modo fortuito, portavamo sacchi di iuta da riempire di paglia e cucivamo vecchie coperte per approssimare i sacchi letto. Per le costruzioni si usava il legname trasportato dal fiume, mentre oggi le squadriglie arrivano al campo con cucine premontate, fatte di paletti dritti e già appuntiti, e questo quando va bene. Diciamo che tanti anni fa vivevamo l’essenzialità per necessità, mentre oggi perseguirla è molto difficile».
Solo per i ragazzi o anche per i capi?
I ragazzi sono sempre gli stessi, ciò che cambia è il contesto in cui crescono e la proposta che facciamo noi. Ci sono capi che preferiscono calcare i loro ragazzi in sede piuttosto che intingerli nel fango di un’uscita vissuta nonostante il cattivo tempo. Ma senza la vita all’aria aperta non si fa scautismo.
Forse privilegiano altri strumenti del metodo.
Sì come la progressione personale, la vita comunitaria o certi capitoli della branca R/S. Ci vogliono anche quelli, per carità, ma non sono le chiacchiere che fanno lo scautismo. Perdonatemi la provocazione, ma richiede molto meno impegno far sedere i ragazzi in cerchio a parlare di sé piuttosto che organizzare una bella attività di pioneristica o un’uscita avventurosa.
Se le tecniche dello scouting sono al cuore della proposta, perché si è sentita l’esigenza di un Settore specializzazioni?
Per rendere disponibili e organizzate le risorse presenti sul territorio nazionale. Negli anni Sessanta in Italia c’erano diversi gruppetti di capi che si occupavano di tecniche in modo autonomo. In Piemonte c’erano i Gatti magici che facevano espressione, in Lombardia un gruppo che aveva appreso l’hebertismo dagli scout francesi e belgi e così via. Il Consiglio generale di allora capì che era importante custodire e far tesoro di questo patrimonio di conoscenze, oltre che dargli un’impronta nazionale e una certa uniformità.
Un compito che affidarono a te.
Sì, io mi occupai di organizzare il Settore Specializzazioni, che sarebbe nato ufficialmente nel 1968 (eravamo ancora Asci) e poiché una delle priorità era mettere a fuoco gli aspetti educativi, mi feci affiancare dal pedagogo Norberto Ramella. Con l’introduzione del nuovo sentiero, alcuni anni dopo, le specializzazioni occuparono uno spazio ancor più definito nell’Associazione: diventavano un traguardo significativo nella formazione del ragazzo in età di reparto.
Il Settore ha quasi 50 anni di vita. Ha dato i suoi frutti?
A mio avviso sì. Operando a livello nazionale il settore ha permesso di volare alto dal punto di vista dell’azione e del pensiero e ha dato unitarietà alla proposta educativa, evitandone la provincializzazione. Negli anni, inoltre, i campi di specializzazione sono state opportunità importante di crescita per tanti ragazzi, che vivono esperienze a livello nazionale e internazionale e possono confrontarsi con tanti coetanei di provenienze disparate e in ambienti educativi diversi da quello di origine. I campi di specializzazione sono e sono sempre stati eventi formativi, non solo tecnici.
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