Piccole gioie, desideri grandi
Quando si vive una pausa nel proprio servizio tra i ragazzi, anche solo nei brevissimi buen retiros estivi post campi, spesso si ha occasione di rileggere il senso del proprio impegno come capo scout ed educatore. Nella nostra associazione siamo tantissimi e ciascuno di noi ha una storia ricca di racconti unici. Penso tuttavia di non sbilanciarmi se dicessi che la felicità di coloro che accompagniamo possa essere il fattore comune di ciascuna esperienza significativa di servizio. Personalmente molti miei ex ragazzi mi ricordano di più per il mio ridicolo travestimento da cammello dei re Magi durante un campo invernale, che per i miei edificanti (?) momenti di progressione personale. Ma qui non vogliamo parlare di ricordi. Ho sempre saputo infatti che quelle gioie sono il combustibile della vita comunitaria durante ogni campo e route. Con un respiro più ampio ora penso tuttavia che quella felicità – la felicità dei ragazzi – sia proprio il motivo ultimo del mio servizio. Perché è così bello dal punto di vista umano fare il capo scout se non proprio perché bambini e ragazzi condividono molto della loro vita, ma soprattutto ci regalano la loro felicità?
Nella nostra proposta educativa c’è tutto – spiritualità, metodo, concretezza, impegno, fraternità – ma senza la felicità di chi accompagniamo, è difficile pensare che si avvii il processo di interiorizzazione dell’esperienza, soprattutto durante l’infanzia. Non sto parlando del feedback positivo, del sorriso con cui l’esploratore scende dall’autobus al ritorno dal campo, ma della felicità che nasce dalla soddisfazione di avercela fatta assieme agli altri, per aver guidato la propria squadriglia in hike, o per aver concluso una route. È sulla base di queste felicità semplici che siamo quindi autorizzati a raccontare di una promessa di felicità più grande – una “strada di libertà” – fatta da Colui che all’impegno non viene mai meno, per la vita e oltre.
Se condividiamo questa lettura, allora converremo che i desideri di bambini e ragazzi, anche quelli poco a fuoco, non vanno giudicati sommariamente in termini educativi. Ad esempio cosa possiamo fare quando un nostro lupetto ci confessa che il suo sogno di felicità è avere ai piedi delle Jordan?
«Ma dopo tutto quello che ti ho detto… la catechesi con Gesù che nasce in una mangiatoia fatta un’ora fa… e poi i tuoi prendono il pacco della Caritas…» pensiamo tra noi mentre il nostro approccio educativo su quel bambino sembra andare a ramengo. Ma dietro una richiesta così strampalata, sappiamo che c’è un’istanza di uguaglianza rispetto a chi è più fortunato. Allora potremmo suggerirgli che quelle scarpe non può averle subito, cosa è il risparmio, che dovrà fare qualche lavoretto e che per imparare a farlo può chiedere aiuto.
Traguardando questi desideri verso orizzonti più ampi, ne proteggiamo il valore che il bambino e il ragazzo gli attribuiscono, mentre trasformiamo la forma verso cui realizzarlo. Nel testo I cirenei della gioia don Tonino Bello invita i preti (e noi educatori tutti, di riflesso) a «ricollocare le nostre tende nell’accampamento degli uomini», riscoprendo soprattutto le gioie «genuinamente umane». Da quelle appunto dei bambini – il giocattolo regalato, la mamma che torna prima dal lavoro – a quelle da adulti, come il sorriso dell’amata o la promozione che tanto aspettavi. Proprio perché «queste felicità fanno corpo con quella che sperimenteremo nel Regno». Le felicità genuinamente umane sono quindi il seme per maturare sogni grandi, che coltiviamo nel nostro cuore perché abbiamo visto qualcuno che è riuscito a realizzarli.
In questo semplice, forse banale, ragionamento manca la premessa, che credo sia ancora una volta l’autorevolezza di noi capi che veicoliamo la proposta scout. La felicità dei ragazzi è il motore del mio servizio, ma non può essere l’unico motivo della mia felicità. La nostra vita deve in una certa misura e con equilibrio testimoniare la felicità dei figli di Dio, per grazia Sua anche nella fatica e nella sofferenza. E questa forse è la parte più impegnativa…
[Foto di Pietro Favaretto]
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