Chiara ha 17 anni. Ricci ribelli che vanno qua e là e grandi cuffie sulle orecchie. A Chiara piace la musica. Stare su Instagram. Ipotizzare tatuaggi. Divorare serie TV. Le cose dei ragazzi insomma. Solo questo, sempre questo. Dicono loro. A Chiara piacciono i quadri, le ballerine di Degas soprattutto, e i manifesti del Moulin Rouge di Toulouse-Lautrec; perché Chiara alla domanda “In quale periodo storico avresti voluto vivere” saprebbe rispondere. Forte e chiaro: “Nella Parigi della Bohème”. A inebriarsi di arte, a scrivere poesie, a infilarsi nei piccoli teatri di quartiere ad assistere a operette da quattro soldi, a lasciarsi ritrarre dagli aspiranti artisti dalla vita sregolata e affascinante. Parigi, gli inizi del Novecento, i vicoli di MontMartre, i caffè. Proprio lì. Ma loro non lo dicono perché loro questo non lo sanno.
Parigi la attrae ancora oggi. Ci è stata con la scuola in gita. Ha assaporato ogni angolo, si è immaginata quei luoghi tanti anni prima, ha fotografato tutto. Anche la tomba di Wilde. Soprattutto quella. E ha postato tutto su Instagram. Solo quello, sempre quello.
“Forse casa mia è a Parigi. Tra la Bastiglia e il Bataclan. Sì casa mia è a Parigi. Tra la Bastiglia e Notre-Dame”. Sì, deve essere così – pensa Chiara mentre ascolta Silvestri. E ha un brivido. Ancora oggi.
Pochi lo sanno, ma ogni tanto, dopo la scuola, Chiara passa dal centro e va a vedere qualche mostra di pittura e sta lì, con gli occhi fissi davanti ai colori e alle linee, e di fronte a quella bellezza ritrova il senso delle cose, si riappropria della concretezza di tracce su tela e da quella concretezza prende il volo, si lascia invadere da un brivido di piacere e perde tempo. Tanto tempo. Ma loro non lo dicono perché loro questo non lo sanno. Chiara perde tempo in giro.
Chiara quel venerdì era uscita. Era a casa di Ilaria a vedere un film. Quando rientra, sua madre è incollata alla tv, sulle notizie di Skytg24. Un attacco terrorista. A Parigi. Parigi. In più punti della città. Sparano all’impazzata, allo stadio, in un caffè, in un teatro. Luoghi della quotidianità. Dicono in tv. Più attacchi. La città è sotto assedio. A Parigi. Parigi.
Chiara passa oltre. Chiara non ha voglia di sentire quella storia. Non vede l’ora di togliersi le scarpe e andare in camera sua. Tutto ma non quella storia. Non quell’orrore. Basta. Fa un cenno di buonanotte a sua madre. Si defila verso il bagno. Ma non va così liscia, sua mamma parte con un vieni a vedere, ma è pazzesco, a Parigi, sparano all’impazzata, non si può più star tranquilli, Parigi capisci? Allo stadio, in un locale, durante un concerto. Parigi, capisci? Sono ovunque ormai. Chiara annuisce, mormora un terribile, bofonchia che ha sonno, si gira come per andarsene. Sua mamma la chiude lì. Tanto a te cosa ti interessa, basta che stai in giro o su internet. Va be’, ciao ma’.
Chiara si mette a letto, apre Facebook dal cellulare, già un sacco di persone hanno la bandiera francese come sfondo della propria immagine del profilo. Già girano le immagini della Tour Eiffel in lutto, Pray for Paris, Je suis Paris. Mais oui, je suis Paris aujourd’hui che ieri ero Charlie, pensa Chiara. Credono davvero che basti così poco? A cosa serve tutto questo? Il suo piccolo picchio comincia a martellare e Chiara lo sa, quando lui inizia, poi è dura farlo smettere. Chiara ha un picchio nella testa, fin da quando era bambina. Ogni tanto attacca e fa partire i pensieri, troppi pensieri e mille domande, tante domande. “A maledire certe domande che forse era meglio non farsi mai”, dice quella canzone degli Afterhours.
Chiara se li immagina così. Come su un surf. Adagiati sulla loro tavola e appena vedono l’onda in lontananza, muscoli in tensione e via in piedi, a cavalcarla l’onda. A lasciarsi anche travolgere, ma solo per un istante. Poi si riaffiora, poi torna la quiete. Fino alla prossima onda. Ecco, loro sono così: “surfano” sulla notizia, sul dolore anche, se ne appropriano per un istante (massimo un giorno, dai), li tocca nel vivo. Soffrono davvero per quel po’. Lei lo capisce. Gli crede (un po’). Ma poi? Eccolo il picchio. Ma poi cosa cambia davvero? Oggi sei Paris, ieri eri Charlie, domani chi sarai? E cosa sarai davvero? E poi, che bisogno hai di dirlo? Ti senti più sicuro, ti senti “sul pezzo”, fai vedere che stai seguendo la situazione, fai vedere che sei sensibile – come se gli altri non lo fossero poi – cosa? Basta picchio, che è tardi.
Chiara invece sogna un mondo di persone che facciano snorkeling. Che nuotino in superficie per guardare il fondo del mare. Che guardino giù davvero, che guardino dentro. Che non si lascino solo investire dalle onde e travolgere da quel blu, ma che lo osservino, con calma, scandagliando i fondali, contemplandone gli angoli nascosti, cercando il cuore del mondo laggiù nel profondo. Chiara vorrebbe abitarlo il cuore delle cose, vorrebbe sedersi, sola, “sul cuor della terra” e vorrebbe essere capace di ascoltarlo quel mondo, vorrebbe essere capace di capire cosa sta accadendo, ma cosa sta accadendo davvero. Cosa sta accadendo non solo a Parigi, ma cosa sta accadendo alle persone. Non saranno tutti un po’ troppo surfisti?
“E voglio un pensiero superficiale che renda la pelle splendida”. Dice quella canzone. Basta picchio. Basta musica. Cellulare sul comodino. Via le pinne, via il boccaglio, la maschera no, la tengo un altro po’ stasera, che “Il genere umano non può sopportare troppa realtà”.
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[foto di Roberta Rossi]
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