Educare è fare alleanze

di Valentina Enea

Come nasce questa alleanza educativa tra AC e AGESCI? Matteo Truffelli (AC): «Nasce dalla comune passione per l’educazione dei piccoli e dei giovani che accomuna le due associazioni, dal desiderio di mettere in comune le nostre esperienze, i nostri talenti e i nostri dubbi al fine di un arricchimento reciproco. Ci siamo incontrati intorno al desiderio di partecipare al percorso voluto da Francesco sul tema dell’educazione nella chiave più appropriata e significativa: la costruzione di un’alleanza. In questi anni ci siamo più volte raccontanti a vicenda e abbiamo stretto legami di amicizia vera, scoprendo tanti tratti comuni, una sensibilità associativa ed ecclesiale molto simile e lo stesso desiderio di non chiuderci in noi stessi». – Quale meta le due associazioni puntano a raggiungere con il documento Un “noi” generativo?

Barbara Battilana e Vincenzo Piccolo (AGESCI): «Proprio muovendo dai tanti tratti comuni tra le due Associazioni, il documento vuole fissare ciò che sta a cuore a tutti noi: l’educazione dei ragazzi. La proposta educativa che promuoviamo si fonda sulla centralità del ragazzo e siamo consapevoli che può diventare ancora più generativa se non si limita ad essere una proposta specifica di una realtà, ma diventa un’attenzione e uno stile che l’intera comunità prende come riferimento. Il documento muove i primi passi sulla strada, pone le sue basi per ampliare e sviluppare un’alleanza, attivando un processo virtuoso a tutti i livelli». – Cosa ha da dire questo documento ai cristiani, alla nostra Chiesa oggi? Truffelli: «È l’idea stessa di costruire un’alleanza che ha molto da dire al nostro tempo, alla nostra Chiesa e alla nostra società. Dice la volontà di concorrere a costruire una Chiesa sinodale e la consapevolezza che il bene comune lo si costruisce solo insieme, non marciando ciascuno per la propria strada. Dice ancora molto sulla capacità di coltivare l’arte dell’ascolto e dell’accoglienza reciproca. Esprime, infine, un’idea di formazione che non si limita a educare alcuni aspetti del nostro essere credenti, ma fa crescere persone e cittadini appassionati, generosi, responsabili. Tutto questo è decisivo anche per capire come abitare gli spazi dell’emarginazione, della solitudine, della fragilità; come starci dentro per seminare speranza». – Relazioni di prossimità, protagonismo dei ragazzi, corresponsabilità sono tra i punti che le associazioni riconoscono comuni al loro stile educativo. Qual è il valore aggiunto di una proposta intergenerazionale?

Battilana e Piccolo: «Tutti siamo annunciatori del Vangelo e i ragazzi ci sono avanti per spontaneità e capacità di affidamento, a noi sta solo la capacità di porre fiducia in loro. Baden-Powell diceva Ask the boy. Era convinto che i giovani siano capaci di autoeducarsi, se messi nelle opportune condizioni di farlo. Il nostro compito è di creare le condizioni, la possibilità di fargli vivere esperienze che li aiutino ad entrare in relazione ed a costruire il loro futuro. Sperimentiamo continuamente che noi stessi adulti impariamo dal rapporto costante e fecondo con loro. Come capi siamo chiamati a vivere questa avventura al loro fianco, meglio se collocati un passo indietro rispetto a loro, al fine di sorreggerli nel momento in cui perdessero un po’ di entusiasmo e di incoraggiarli a puntare nuovamente la meta con fiducia». – In questo tempo perché “educare alla cultura della cura? Truffelli: «Il nostro tempo è attraversato da tante ferite e fragilità, tante contraddizioni, tante forme di disumanizzazione e di ingiustizia. Ferite che attraversano la vita delle persone, delle famiglie e anche della società. Ma il nostro non è un tempo “sbagliato”. È un tempo in cui il Bene è all’opera, come sempre. Ed è un tempo in cui i ragazzi ed i giovani hanno tanto da dire, tanto da fare per contribuire al bene di tutti. Si tratta di lasciare spazio alla loro creatività, al loro cuore appassionato, alla loro responsabilità verso se stessi e verso il mondo, I capi, gli educatori sono per primi discepoli in cammino, chiamati ad operare “proprio lì dove ci troviamo”». – Quanto contano le basi solide di chi accompagna giovani e ragazzi? Battilana e Piccolo: «Siamo al servizio nel “qui e ora”. Questo tempo diverso che abbiamo vissuto ci ha portato a prendere consapevolezza che non c’è chi ne sa più di altri, soprattutto nei momenti difficili. Baden-Powell vedeva nella figura del capo il fratello maggiore che ha nel proprio zaino qualche esperienza in più del ragazzo che gli è affidato. Questo non significa che il capo è l’amicone, ma è semplicemente colui che sa aiutare il ragazzo ad individuare da sé la propria strada. La nostra formazione ha proprio questo come obiettivo: conoscere alcuni strumenti utili al capo per prendersi cura di tutti indistintamente, per spronare il ragazzo più timido o che rischia di emarginarsi, facendolo sentire amato e capace di realizzare grandi cose. Il capo non è al centro della nostra proposta educativa: è quello che rimane in un angolo, ma sempre presente e disponibile per i ragazzi a lui affidati. Essere testimoni credibili e fedeli è farsi compagni di strada come Gesù con i discepoli di Emmaus, ascoltando le delusioni, ma al contempo aiutandoli a vedere oltre il loro orizzonte. Il mondo può cambiare è l’affermazione che ci sollecita e ci spinge a collaborare con chi ha a cuore l’educazione scegliendo di impegnarci insieme in una causa comune. Il momento di fraternità e di confronto vissuto dal livello nazionale di Ac e AGESCI segna una tappa importante di questo cammino, che continuerà nei prossimi mesi e che ci vedrà impegnati a rispondere all’invito di Francesco per la costruzione di un Patto globale per l’educazione».

 

 

 

[Foto di Nicola Cavallotti]

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