Nel “mondo Covid” ci si sente insicuri, impotenti e precari. Pensare di poter programmare tutto porta solo ansia, meglio vivere a pieno il presente con elasticità, inventiva e cercando di cogliere tutte le opportunità. Ne parliamo con lo psicologo Fabio Sbattella
Professor Sbattella, la pandemia come ha cambiato la società in cui viviamo?
- «Questa pandemia ci ha cambiato come persone, il contesto sociale è cambiato e tutti saremo costretti a consolidare nel tempo quei mutamenti di cui abbiamo fatto esperienza: la spinta alla digitalizzazione, che dai giovani ha interessato le generazioni più mature, la valorizzazione delle risorse più prossime, dai negozi di quartiere alla sicurezza data dal nucleo familiare e dalle amicizie nella nostra vita. Un altro cambiamento culturale e sociale molto profondo è legato alla condizione di incertezza diffusa in cui ci troviamo».
- Non ci sentivamo precari già prima?
«Sapevamo già di vivere in un mondo in cui i mutamenti sono all’ordine del giorno. Tuttavia questa verità si è ora palesata in maniera concreta a tutti. Gli scienziati infatti non sanno dirci come e quando questo virus si ripresenterà. Le condizioni sono ora per tutti incerte, per i giovani e il loro futuro ma anche per gli adulti, la società, l’economia… E chi non prenderà coscienza di questo, pretendendo di poter continuare a pensare al futuro con la presunzione di controllarlo, pianificarlo, lavorare per obiettivi, incontrerà delle grosse difficoltà».
- Con che atteggiamento occorre porsi, allora?
«L’invito è a vivere pienamente ogni giorno. Questo non vuol dire cogliere l’attimo, ma vivere intensamente il presente. La prospettiva di percorsi di formazione programmati precisamente per anni, o dei viaggi prenotati con molto anticipo, hanno perso completamente di significato. Possiamo invece imparare molto dalle culture che hanno una consapevolezza diversa rispetto al futuro. Nessuno in Sri Lanka, dove ho lavorato, ha in mente di poter controllare il monsone. La coltivazione dei campi richiede grandi sacrifici, ma se Dio non manda la pioggia il lavoro dell’uomo non sarà ricompensato. Anche noi dobbiamo guardare la realtà consapevoli che la vita è più grande di noi e che in parte si fa la volontà di Dio. Dobbiamo far prevalere un atteggiamento più spirituale e sicuramente più consapevole dei limiti dell’umanità. Se invece ci facciamo guidare dalla sindrome del controllo ci caricheremo tutti di molta ansia».
- Quale immagine suggerisce di utilizzare, e quali invece evitare, per parlarne con bambini e ragazzi?
«È sempre inopportuno utilizzare la metafora della guerra per descrivere un’epidemia. Si finisce per identificare il paziente con il nemico, da combattere ed eliminare, mentre il malato è la vittima per definizione. Da evitare anche l’immagine dello tsunami, un’onda lunga che arriva, spazza via case, scuole, economia, ma finisce nel giro di qualche decina di minuti, ci si riabbraccia e si ricostruisce. Ho proposto di descrivere la pandemia come un monsone, una pioggia torrenziale distruttiva, periodica, davanti a cui ci si prepara, si fa provviste, però poi va e viene come il vento, ogni anno».
- Rispetto alla relazione educativa, qual è un aspetto da valorizzare in questo frangente?
«In uno stato di emergenza si impara a salvare il salvabile, accettando che ci saranno delle perdite. Questo a causa della disparità tra i bisogni presenti e le risorse in campo. Di fronte a questo limite, soprattutto chi è abituato, per lavoro o attitudine, a prodigarsi per gli altri, si sente all’improvviso impotente. Scopriamo di non essere dei supereroi, di non poter risolvere tutto. Questa impotenza affatica e scoraggia, e lo osserviamo a tutti i livelli. Dobbiamo però aiutare le persone a mantenere potere su quel poco che possono fare. Tutti abbiamo bisogno di spazi di autonomia, avere l’occasione di fare ciò di cui siamo in grado senza che qualcuno lo faccia per noi. In questo senso lo scautismo è eccellente perché da subito promuove e difende l’autonomia, fai il tuo zaino, monti la tua tenda, aiuti i tuoi pari. Chiediamo ai ragazzi di fare quello che riescono a fare, inventiamo delle sfide che possono vincere».
- Capi e staff dovranno ripensare al modo di proporre le attività….
«Dobbiamo partire dalla consapevolezza che il mondo di prima non c’è più, è nata una nuova società Covid.0. E i capi devono inventarsi un modo nuovo di fare scautismo. In questo momento, ad esempio, il mondo dice che si può lavorare in gruppi di 7 con un educatore di riferimento fisso…ecco la squadriglia! Marciare in fila a 1 metro di distanza, comunicare con il morse e ricetrasmittenti tra una valle e l’altra, fare un’uscita in bicicletta oppure ognuno con la sua canoa… sono tanti gli strumenti a disposizione. Per lupetti e coccinelle giocare molto e raccontare fiabe, come ci insegna il Libro della Giungla. Stare all’aria aperta, incontrare altre persone reali e soprattutto fare viaggiare la fantasia e la creatività perché, essendo un mondo nuovo, bisogna inventarsi qualcosa di nuovo, continuamente. Le persone rigide e non creative non ce la fanno. Lo scautismo, invece, è creatività e capacità di cogliere le opportunità».
- Alcuni capi sono affaticati e si interrogano sulla loro disponibilità a spendersi nel servizio…
«Non temete perché l’umanità è sensata, la storia ci insegna che i virus li abbiamo sempre gestiti. Il metodo scout è forte, è riuscito a proporsi anche durante il fascismo. Bambini e adolescenti hanno ora più che mai bisogno di cose semplici, concrete e reali. Arrampicarsi su un albero, padroneggiare un monopattino o una bicicletta con il rischio di cadere. Per non chiudersi dentro se stessi, hanno bisogno di sapere che qualcuno pensa e ha cura di loro. Credo che non possiamo tirarci indietro rispetto a questo bisogno di servizio, che ora è molto grande. Ognuno poi fa come può, partendo da chi ha vicino, con semplicità e spontaneità. A chi si sente scoraggiato dico che dedicarsi agli altri fa benissimo psicologicamente, da tanti punti di vista».
- La dimensione politica del servizio è ancora più significativa in questi giorni….
«Assolutamente. E aggiungo, fai servizio a km 0 ma non puoi dimenticarti della prospettiva globale. Mentre ti chiudi e proteggi la tua comunità, il tuo territorio, non dimenticarti dei poveri del mondo».
Psicoterapeuta sul campo
Fabio Sbattella, Psicologo, è responsabile dell’Unità di ricerca in Psicologia dell’emergenza e dell’intervento umanitario all’Università Cattolica di Milano. Per Fabio Sbattella l’attività di ricerca e insegnamento è affiancata da un impegno costante come psicoterapeuta sul campo a sostegno dei minori, delle loro famiglie e dei “caregivers” dopo i terremoti in Molise (2002), Abruzzo (2009) Emilia (2012) Centro Italia (2016); lo Tsunami nel Sud est Asiatico (2004); il terremoto in Haiti (2010), il sisma in Albania (2019).
[Foto di Nicola Cavallotti]
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