Come origano sulla pizza

Coraggio è la qualità di chi non ha paura, recita placido il dizionario.
Qualità, che è tono e non virtù. Insomma come l’origano sulla pizza: insaporisce, da intensità ma ciò che nutre è altro e, nel nostro caso, lo dice l’etimo stesso: ciò che viene dal cuore, dall’azione del cuore (cor-agere).

Il coraggio è una forza che emerge di fronte ai pericoli e aiuta a sopportare fatiche e imprevisti. A volte è lottare per le proprie idee e si coniuga con l’essere sinceri, leali, impegnati per il bene di tutti e capaci di perdonare. È affrontare le difficoltà con prudenza ma senza paura. Ci fa guardare lontano, diritti verso il futuro e questo pur senza essere virtù. Con le virtù però il coraggio si può coniugare, perché è condizione necessaria ma non sufficiente, per condurre una vita riuscita.

Il tema delle virtù è sufficientemente desueto per poterne parlare suscitando curiosità. Con qualche attenzione e un rischio, il rischio di dire cose che non sono à la page. Le persone virtuose, così come le virtù, non godono di buonissima fama, ma forse hanno solo un pessimo ufficio stampa. Quando si parla di una persona virtuosa, pensiamo a qualcuno di noioso, di scarsamente attrattivo eppure le virtù sono qualità decisive per definire una vita riuscita, aspirazione ancora abbastanza comune.

Una vita riuscita, vissuta con gusto ed entusiasmo, si costruisce su relazioni vitali, profonde e realizzanti, sul realizzare qualcosa di prezioso per noi e per gli altri, su una buona relazione con gli altri, con le cose e con Dio. Per fare questo si devono sviluppare particolari atteggiamenti interiori che chiamiamo virtù, strumenti che ci accompagnano all’obiettivo della vita riuscita. La tradizione cristiana ha sempre dato grande spazio al tema delle virtù, a quelle disposizioni d’animo che ci predispongono al bene e, perché no, al buono e al bello se non vogliamo scordare i classici percorsi filosofici che hanno il pregio di tracciare una strada di saggezza.

Il tema della virtù, tra riflessione e esperienza, ha trovato coniugazione nelle virtù cardinali ovvero nell’espressione che deriva dal latino cardo, il punto di rotazione, il cardine intorno a cui si decide il compimento di una vita. Senza dimenticare che «il fine di una vita virtuosa consiste nel divenire simile a Dio» come ricordava San Gregorio di Nissa.

Ma quali sono le virtù cardinali? La tradizione credente le ha condensate e codificato nel catechismo individuandole in: giustizia, prudenza, temperanza e fortezza.

Le fantastiche quattro
Quattro percorsi che indicano azioni abituali e stabili, coniugazioni che offrono, – permettendo la rozzezza della definizione – gli attrezzi per il mestiere del vivere. Se la prudenza vive nella logica di chi rifiuta la formula del tutto e subito, la giustizia accompagna chi cerca di non rispondere con la violenza e alle ingiurie subite e la fortezza è la tenacia del volontario o la capacità di affrontare il mare burrascoso della malattia, mentre nella temperanza è l’arte del dominio di sé, qual conoscersi e migliorarsi per vivere bene e servire gli altri.

Proviamo a coniugare virtù cardinali e coraggio, in uno sguardo che sappia indagare punti di forza su cui appoggiarsi e punti di debolezza da sostenere.

C’è una donna seduta a un tavolo da studio che nella mano destra tiene un compasso, forse il simbolo della scienza e nella sinistra uno specchio per guardarsi dentro, ma forse anche alle spalle. Non sembra avere nessun compiacimento narcisistico e sul tavolo è posto un libro. La racconta così, Giotto, nella Cappella degli Scrovegni a Padova, la prudenza, che ai nostri tempi sembra appartenere a qualche nonna ansiosa o alle pie esortazioni pre-automobilistiche. Il coraggio, coniugato con la prudenza, porta con sé l’audacia del pensiero e dell’azione.

Agostino, il santo immigrato dalle coste dell’Africa, ricordava che la prudenza è la «conoscenza delle cose da desiderare e da fuggire», atteggiamento di particolare saggezza che accompagna molto del nostro programmare educativo, le imprese e i capitoli dei nostri ragazzi, di cui noi facciamo esperienza soprattutto quando ne percepiamo l’assenza. Attenzione non si tratta di essere brillanti o avveduti in qualche questione tecnica o nell’approccio scientifico ma ci si riferisce alla riflessività grazie alla quale otteniamo conoscenze d’importanza centrale per la vita, indicando la misura e la regola. Il coraggio libera queste ultime dal senso limitativo e contenitivo che non permette alle migliori energie di liberarsi. Il prudente non è il cauto, il titubante ma è chi decide con sano realismo e osa, con coraggio.

Sulla giustizia, ci sentiamo più ferrati, la sentiamo più famigliare sia nelle sue articolazioni, sia nella sua coniugazione con il coraggio. Si tratta di dare a Dio e al prossimo ciò che è loro dovuto dai vincoli di amore e fraternità. Insomma, sembrerebbe il classico “a ciascuno il suo” su cui si sono espressi Platone, Cicerone e mille altri! Ricorda l’evangelista Giovanni nella sua prima lettera che «Chi pratica la giustizia è giusto come Egli [il Cristo] è giusto» (1Gv 3,7) ma anche «Chi non pratica la giustizia non è da Dio» (1Giovanni 3,10), segnando per sempre il cammino del credente. E la giustizia si nutre di non violenza, di misericordia ma anche di reciprocità, di generosità, consapevoli che “largamente abbiamo ricevuto e largamente doniamo”.

Un santo del Cinquecento ricordava con saggezza che il prossimo «è il mezzo che riceve quello che non possiamo dare a Dio, non avendo egli bisogno dei nostri beni» (Antonio Maria Zaccaria, Lettera II).

Quale sia il ruolo del coraggio in questa impresa, mi sembra evidente, soprattutto per chi è chiamato a vivere quanto Gesù ha inidicato nel discorso delle beatitudini.

Nelle immagini che accompagnano la virtù della fortezza compare spesso una colonna, e si capisce; è il sostegno di chi vuole essere forte ma saggiamente sa che ha bisogno di aiuto. La fortezza nella vita, nella ricerca del bene, assicura fermezza e costanza, la capacità di resistere alle difficoltà e l’imparare a non scoraggiarci, tasto dolente di ogni tempo. Lo scoraggiarsi è forse la più comune dimensione della vita, quella che tristemente paralizza, l’esatto contrario del coraggio.

Fortezza è l’alimento di chi tende a non raggiungere l’altezza delle proprie possibilità, di chi non esprime, per timore o pigrizia, le proprie potenzialità. Di chi da troppo tempo non da un calcio all’ “im” di impossibile.

Fermezza, autonomia e capacità di resistenza, i frutti migliori di questa virtù cui si avvicina quasi naturalmente la temperanza.

Autocontrollo, avvedutezza, equilibrio sono i termini con cui si tende a far riferimento quando si parla di temperanza, che lo stesso Aristotele vedeva come la virtù della moderazione degli impulsi e degli appetiti, siano essi riferiti al cibo, agli impulsi sessuali, all’uso dei beni materiali, all’uso del potere, all’irascibilità.

Forse la saggezza antica non ci aiuta. Il rischio è di veder incarnata la temperanza in chi vive una vita senza pretese, a scatto moderato, lontano dalle emozioni forti, dall’adrenalina. Ben poco stimolante o attraente. Ecco perché il coraggio porta aria fresca. In fondo si tratta di decidere ciò che vogliamo essere, di coniugare questo con ciò che abbiamo e ciò che possediamo, sviluppare un istinto, un fiuto verso un equilibrio che esalti la vita e non la rattrappisca. Ciò che abbiamo e che ci è dato, è esaltato dalla condivisione e custodito dalla temperanza.

La grinta del passo dopo passo
Naturalmente le quattro virtù non sempre possono essere distinte in modo preciso, si compenetrano, si contaminano, sono aspetti diversi percorsi di un’unica condotta di vita. E poi è difficile ragionare in astratto delle virtù, è necessario calarle sempre nella vita e, per il credente, è bene ricordare che lo stesso Gesù ha praticato questa strade nella sua esistenza.

«Signore, dacci la grazia della tenerezza» ci ripete a ogni passo, Papa Francesco.

Cosa ne è della tenerezza coniugata con il coraggio? Quale grinta offre il lasciarci accarezzare da Dio? In fondo il coraggio è prendersi cura della vita, della nostra e di quella dei nostri fratelli, sotto lo sguardo benevolo e misericordioso di Dio. La tenerezza, sembra dirci Pappa  Francesco, è coraggio, forza motrice, consapevolezza delle nostre potenzialità, di limiti e fatiche, perché in fondo, come ricordava il poeta spagnolo Antonio Machado, «Caminante, no hay camino, se hace camino al andar (viandante, non c’è sentiero, il sentiero si fa camminando)».

L’aveva ben capito Giovanni XXIII che così pregava: «Solo per oggi crederò fermamente, nonostante le apparenze contrarie, che la Provvidenza di Dio si occupi di me come se nessun altro esistesse al mondo. Solo per oggi avrò cura del mio aspetto; non alzerò la voce, sarò cortese nei modi, non criticherò nessuno, non pretenderò di migliorare nessuno se non me stesso. Solo per oggi compirò una buona azione e non lo dirò a nessuno. Solo per oggi dedicherò dieci minuti a qualche buona lettura ricordando che, come il cibo è necessario al corpo, così la buona lettura alla vita dell’anima. Solo per oggi non avrò timori. Non avrò paura di godere ciò che è bello e di credere alla bontà. Solo per oggi mi farò un programma: forse non lo seguirò a puntino ma lo farò e mi guarderò da due malanni: la fretta e l’indecisione. Posso ben fare per dodici ore ciò che mi sgomenterei se pensassi di doverlo fare per tutta la vita». [padre Stefano Gorla]

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