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La mia fede è imperfetta, di questo sono certo: non manca verifica o discussione in cui non lo ammetto candidamente, quasi con una punta di orgoglio. A volte sono io stesso a porre limiti alla mia fede, ponendo attenzione a ciò che non capisco, mettendo in evidenza la fragilità della Chiesa, la non condivisione di alcune espressioni o indicazioni, dando peso e valore a ciò che mi tiene distante; e poi c’è quel prete lì, che si è comportato male e tra l’altro non sempre ho tempo per fermarmi a pregare; vado a Messa forse più per abitudine, ma in parrocchia faccio fatica; meglio un prato di montagna o la riva di un lago, durante il campo estivo o la Messa di gruppo a fine attività, quando si danno i mandati: belle quelle celebrazioni! Nel resto dell’anno, nella migliore delle ipotesi, la mia fede è uno spazio privato, intimo, in cui mi posso rifugiare senza coltivare particolari appartenenze. La confessione è un optional. È così anche nelle attività che propongo: la preghiera è una parte isolata, spesso fuori contesto, slegata: il famoso “momento fede” lo delego al nostro assistente, sant’uomo. Lui d’altronde è un professionista! L’ho detto: la mia fede è imperfetta! Che ci posso fare?
Alla luce di questo quadro ritengo piuttosto difficile possa essermi chiesto di essere un capo testimone di fede. Troppo claudicante su questo tema. Non sono degno.
Non è forse così? Abbiamo nei confronti della fede troppo spesso un approccio razionale, ipercritico, intellettuale: ingaggiamo una battaglia giocata tutta nel campo della logica e della ragione, dando peso alle questioni “periferiche” e trascurando quelle invece “centrali”. Abbiamo un’alternativa: deporre le armi e accogliere il fatto che la fede è illogica, irrazionale, più che altro relazionale: è un dono che abbiamo già. E ha a che fare con l’essere amati: questo sarebbe piuttosto centrale.
C’è un episodio, nel Libro dei Re, che ultimamente mi torna spesso alla mente: il profeta Elia arriva nel campo dove Eliseo sta lavorando la terra, con l’aratro tirato da dodici coppie di buoi e getta il suo mantello addosso a Eliseo che intuisce, o sente su di sé, la forza di quel gesto; prima di seguirlo, corre a baciare i suoi genitori, sacrifica una coppia di buoi e prepara da mangiare per la gente. Risponde quindi alla chiamata di Elia, peraltro piuttosto brusca, così, semplicemente, perché gli viene gettato addosso il mantello. Come a dire, forse anche a noi: se indossi il mantello, o anche solo se te lo ritrovi addosso, non puoi che metterti in cammino!
Viene subito da chiedersi se anche noi forse indossiamo un mantello, o se passando qualcuno ce lo abbia mai gettato addosso: può in effetti succedere di avere un mantello e non saperlo neppure, trascurando col tempo la forza che quel mantello ci regala.
Ma cosa significa dunque quel mantello gettato addosso ad Eliseo? Cerchiamo traccia di quello stesso mantello sempre nelle Sacre Scritture: nell’Antico Testamento il mantello è il bene più prezioso, essenziale, che attribuisce dignità. Nessuno, nemmeno il più povero, ne deve rimanere sprovvisto. In Esodo 22,25-26 si legge: «Se prendi in pegno il mantello del tuo prossimo, glielo renderai al tramonto del sole, perché è la sua sola coperta, è il mantello per la sua pelle; come potrebbe coprirsi dormendo?».
In Isaia (Isaia 3,6) il mantello individua la guida del popolo, il sovrano, il Salvatore: «Tu hai un mantello: sii nostro capo; prendi in mano questa rovina!». Anche Gesù indossava il mantello ed era simbolo della sua capacità di guarire (Matteo 9,21): «Se riuscirò anche solo a toccare il suo mantello, sarò guarita»; lo stesso mantello che le guardie, schernendolo, gli toglieranno prima di metterlo in croce e su cui infine getteranno la sorte. Un’ultima immagine legata al mantello: San Martino a cavallo, estrae la spada e divide il suo mantello in due per donarlo ad un povero.
Il mantello è dunque simbolo di regalità, dignità, capacità di guidare e di guarire, di carità: potremmo dire, in sintesi, che il mantello è il segno della capacità di annunciare ed essere quindi profeti.
Torniamo quindi a Eliseo: Elia passa e gli getta addosso il mantello. Lo investe della “capacità profetica”. Eliseo era nel campo ad arare, mica ci pensava di poter essere profeta: aveva i suoi buoi, la sua famiglia. La percezione probabilmente dei suoi limiti. Mica ci si improvvisa profeta, avrà forse pensato.
Il punto è questo: anche noi indossiamo quel mantello, ma spesso ce ne dimentichiamo; pensiamo forse di non essere all’altezza, di essere testimoni poco credibili, pieni di dubbi e contraddizioni. Deleghiamo ad altri più degni di noi. Siamo severi e giudicanti con noi stessi e rinunciamo così a un dono che abbiamo già addosso: un bellissimo mantello, ricevuto in regalo con lo Spirito Santo nel sacramento della Confermazione, che avvolge la nostra Promessa, che ricordiamo nella preghiera del capo «sei tu che me li hai dati e a te devono ritornare».
Possiamo accogliere con mitezza questo dono e pregare di essere capaci di svelare Gesù e il suo amore ai ragazzi che ci sono affidati. Lasciamo fare a Lui e lasciamo che si serva di noi. Quindi: facciamo riposare la testa, il ragionamento, il giudizio e lasciamoci avvolgere dal Suo mantello: smettiamo di combattere e lasciamoci voler bene; siamo davvero chiamati a essere eco del suo Volto: chi ci incontra possa godere dell’incontro con Lui. Questa, desiderata, sia la nostra sorte.
[Foto di Sara Bonvicini]
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