[Bologna, 28 marzo 2020, uno o due giorni dopo l’omelia del papa su Marco 4, 35-41]
ἀσυννέτημμι τὼν ἀνέμων στάσιν
τὸ μὲν γὰρ ἔνθεν κῦμα κυλίνδεται
τὸ δ’ ἔνθεν, ἄμμες δ’ ὄν τὸ μέσσον
νᾶι φορήμμεθα σὺν μελαίνᾳ
χείμωνι μόχθεντες μεγάλῳ μάλα
Non capisco la rivolta dei venti:
di qua rolla un’onda,
di là un’altra, e noi nel mezzo
siamo portati assieme alla nave nera,
tanto in angoscia nella gran tempesta.
Alceo, Frammento 208A V.
Per un marinaio, στάσις (stasis) è la “direzione del vento”. Sul piano etimologico esprime l’atto di “stare in piedi in un punto”, ma diviene col tempo “prendere una posizione”, “schierarsi politicamente” e quindi, senza scampo, “guerra civile”. La στάσις meteorologica ne sottende una politica: qui Alceo parla di Mitilene in preda alle lotte intestine, circa duemilaseicento anni fa. Non ha in mente altri generi di tempeste. Ma la forza della parola sta proprio nel trascendere l’occasione, nell’abbattere i livelli e farsi universale, e non esiste uomo che non abbia sentito sue queste parole, almeno una volta nella vita. Questo impotente urlare a un cielo oscuro.
Il carme prosegue frammentato. I secoli hanno divorato il suo periodare come una tempesta fa con le onde radio di un SOS, lasciandocene cogliere solo frasi sconnesse: “l’acqua della stiva tiene il piede dell’albero, le vele sono tutte a brandelli…”. Poco prima del silenzio: “solo questo potrebbe ancora salvarmi”. Ho sentito almeno due ipotesi su cos’è che potrebbe salvare Alceo. I “piedi impigliati nelle scotte” (sempre che “piedi” non stia per una parte della nave che ora non ricordo, ma riesco a resistere a un’immagine del genere?), e quindi la disperazione, l’estremo folle penzolante legame che mi trattiene dal precipitare; oppure “il carico sballottato” che cade in mare, il liberarsi del peso, dell’inutile mercanzia cagione di questo viaggio maledetto. Ma dopo aver letto di nuovo Marco 4, 35-41, mi piace pensare che la speranza di “salvezza” (σῴζω, sozo, che fra i tre verbi di “salvataggio”, λύω, luo “risolvo il problema” e ρύω, ruo “traggo fuor di pericolo”, sta a indicare il “conservo, mantengo intatto, integro” nel corpo e nella mente, e dunque anche “ricordo”: Cristo “Salvatore” è σωτήρ, sotèr) la risposta ad Alceo, sia quella che ha dato Francesco ieri sera: “non ci salviamo da soli, ma da noi può partire un grido d’aiuto”. Cambio scena, ellissi narrativa – la tempesta è sedata, e fra noi aleggia una domanda, come fanno i gabbiani nell’alba: “chi è dunque costui, cui il vento e il mare obbediscono?”
[salto temporale di circa un mese, percepito come un lustro]
Riprendo questo testo perché, dopo una Co.ca. particolarmente lunga e sentita, la prima da quel maledetto otto di marzo (non me ne vogliano le donne), mi torna in mente un altro brano. È tratto da Hagakure kikigaki, “Annotazioni sulle cose udite all’ombra delle foglie”, una raccolta di massime per giovani samurai composta nel XVII secolo.
Un acquazzone impartisce i suoi insegnamenti. Se la pioggia vi sorprende a metà strada, e camminate più in fretta per trovare un riparo, nel passare sotto alle grondaie o nei punti scoperti vi bagnerete ugualmente. Se invece ammettete sin dall’inizio la possibilità di bagnarvi, non vi darete pena, pur bagnandovi lo stesso.
L’abbiamo già appurato: siamo in mezzo a una tempesta.
Una pioggia imprevista e furibonda.
L’effetto della tempesta, quando dura a lungo e non accenna a smettere, è che la stiva si riempie e l’acqua ti arriva alla gola. Come capi scout, l’acqua in questione è l’ansia che ci afferra di “fare attività”. Di colmare il vuoto che abbiamo lasciato, di trovare nuove strategie per portare avanti i nostri articolati e nevrotici programmi: non perdere il ritmo, non perdere i ragazzi, non perdere tempo.
Sono sorpreso che nessuno dei miei amici capi (io incluso) abbia ancora tirato fuori l’immancabile “non esiste buono o cattivo tempo, solo buono o cattivo equipaggiamento”, una di quelle frasi a effetto che vorrebbe inculcare coraggio e buon senso nei ragazzi e che troppo spesso usiamo per farli sentire in colpa di non “essersi progettati”. Insomma, ci diciamo, questa pioggia non dovrebbe farci paura! Non esiste, la pioggia! “Sorridono e cantano anche nelle difficoltà” (altro slogan maltrattatissimo)! Se ci progettiamo, riusciremo a fare tutto!
Ma il punto credo sia proprio questo.
Quando c’è la pioggia non puoi fare tutto.
La verità, come suo soluto, è semplice e crudele: adesso c’è la pioggia, e noi ci bagneremo.
Non possiamo fare tutto. Le prede, le imprese, i capitoli, la catechesi, non sono loro. Sono infradiciati, scoloriti, sciolti, mescolati e confusi dalla mole dell’acquazzone. Sono snaturati, surrogati, e non può essere altrimenti perché ne manca il cuore pulsante: la relazione – il fuoco di bivacco che sotto la pioggia, quale che sia la miccia, la legna e l’acciarino, non si può accendere, e basta.
“Buon equipaggiamento” significa anche essere equipaggiati nello spirito: avere la saggezza e il coraggio di accettare la realtà e di far fronte a essa come si può, salvando (σῴζω: “conservo”, “mantengo intatto”, “ricordo”, e ci aggiungo “persevero”) quel che può essere salvato, ovvero il cuore del servizio, il settentrione magnetico su cui mappare questo tempo inesplorato. Estote parati non solo a fare cose, ma anche a resistere, ascoltare, comprendere – e poi, adattarsi.
Non il fuoco di bivacco, ma una lanterna: questo possiamo fare. Più che proporre strategie nuove e geniali, metterci in ascolto dei ragazzi. Più che l’ansia di tenerli occupati, la gioia di star loro vicino. Accettare insieme la verità: noi ci bagneremo. Ma ci bagneremo col sorriso.
È facile servire quando il sole splende.
Servire sotto un cielo nero, con il medesimo entusiasmo. Questa è la sfida da raccogliere.
Perché cos’è un capo scout, se non qualcuno che sa “trovare l’alba dentro l’imbrunire”?
[un altro mese: da Bologna sono tornato ad Assisi con nove ore complessive di viaggio (ahi Trenitalia di dolore ostello); durante una notte di quella che il meteo del mio cellulare definisce una “lieve pioggia temporalesca”]
L’ho letto per la prima volta qualche giorno fa e sento il bisogno di aggiungerla in coda a queste riflessioni.
Questo conosco per nono, se bisogno mi nasce
di salvare la mia nave sui flutti:
il vento acquieto sull’onda
e sopisco il mare intero.
È tratto dall’Hàvamàl, un testo sapienziale vichingo del XIII secolo circa. Qui Odino (sì, lui) elenca una serie di diciotto incanti che ha appreso tramite l’arte delle rune e che, secondo il commentatore della mia edizione, corrisponde a una specie di precetti mistici rivolti all’iniziato della saggezza ascetica. Saggezza ascetica. Vichinghi. Prendetevi un momento per contemplare l’accoppiata.
La nave sui flutti, dice il commentatore, è una kenning (una specie di metafora, mi perdonino i germanisti) per l’uomo. “Egli è come un mare più o meno vasto […] C’è qualcosa che veleggia in questo mare. Alcuni la chiamano anima […]. Di fronte alle tempeste nel mare dell’anima, che possono nascere anche negli asceti, […] chi con giusto e intenso raccoglimento si cimenta, sfodera la calma suprema e come nave dominatrice delle onde va fiero e sereno”.
E io non posso fare a meno di tornare col pensiero a Marco 4, 35-41.
Chissà se Gesù non ha pensato proprio qualcosa del genere, un attimo prima di addormentare il vento e il mare. Chissà se la tempesta era anche dentro di lui, come poi quella notte fra gli ulivi. Come è adesso, dentro di noi.
Allora voglio concludere queste sconnesse riflessioni, questa catena di voci polverose, con una preghiera.
Signore Gesù, resta accanto a me nella tempesta. Dammi la saggezza per leggere i venti, l’umiltà di accettare la pioggia, la pace che quieta le onde. Accogli il mio grido, conservami, insegnami a vedere la luce oltre le nubi. Concedimi un cielo sereno e un approdo tranquillo.
Allor fu la paura un poco queta
che nel lago del cor m’era durata
la notte ch’i’ passai con tanta pieta.
Dante, Inferno I, 19-21
Ludovico Marcucci, Bologna
Gli articoli della sezione “La parola ai Capi” sono opinioni personali dei singoli autori. Non rappresentano la voce di Pe né di AGESCI.
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