Giugno 2015, davanti alla Porziuncola, io sono in odore di Partenza e il mio AE dell’epoca, a oggi amico e maestro (qui mi limito a citarlo come Er Bresaola), mi regala un libro di C.S. Lewis che non è Le cronache di Narnia.
Parecchi anni dopo scoprirò che scriverlo era stata, per Lewis, un’impresa fastidiosa. Ma nel 2015, neanche ventenne, lo leggo tutto d’un fiato e lo vampirizzo senza pudore per l’attività di contenuti della Route estiva – che a oggi, dopo una sequela inenarrabile di catechesi, grandi giochi, cene con delitto, veglie alle stelle e persino un campo di specialità, continua a essere una delle creazioni di cui vado più fiero. Il libro in questione è Le lettere di Berlicche, e ogni tanto lo rileggo.
Detta in soldoni, è una serie di lettere scritte dall’eponimo arcidiavolo a suo nipote Malacoda, diavolo tentatore cui è stata affidata la corruzione dell’anima immortale di un ragazzo inglese – parliamo degli anni subito anteriori alla Grande Guerra, che figura come coprotagonista in alcune lettere. La cosa interessante del libro è che tenta di assumere la visione del mondo di un diavolo: gli umani sono bestiame, l’amore è “propaganda del Nemico” e l’obiettivo di ogni buon tentatore è che la sua vittima smetta di farsi domande sulla vita, l’universo e tutto quanto, per citare un altro scrittore britannico famosetto. Visto che a noi scout i britannici ce piaceno. Ma vi risparmio la recensione e vado al sodo.
C’è un passo di una certa lettera che mi si è impresso nella memoria e non se n’è più andato. Berlicche spiega a Malacoda che uno dei metodi più efficaci per allontanare un giovanotto inglese dalla fede cristiana è il cosiddetto “cristianesimo e”. Cambiare qualcosa che è in qualcosa che è anche altro. Così che si formino diversi tipi di “cristianesimo e”, ovviamente disuniti e in disaccordo, e si ponga sempre più l’accento su quell’“e”, vera qualità di un di per sé banale “cristianesimo”. Così che, col tempo, il sostantivo si faccia parola vuota e il connettore logico, nato spoglio di qualsivoglia concretezza, resti l’unica realtà.
Quando lo lessi, mi si rizzarono i peli sulla nuca.
Credo sia da allora che ho iniziato a leggere il decimo articolo della Legge per quello che veramente significa, e che quel sono puri di pensieri, parole e azioni ha iniziato a ritagliarsi una parte da protagonista in tutte le mie verifiche da capo. Puro come senza macchia, intatto, genuino. Puro come fedele alla propria natura.
Una cosa che dello scoutismo mi fa davvero, davvero tanta paura è che a noi adulti sembra non bastare.
Il che di per sé è giusto, sano e indispensabile. Dubitate di quei capi che vivono e respirano solo per il loro reparto, per il loro gruppo, per la loro Zona: non sono buoni testimoni. Lo scoutismo non ci può bastare in assoluto, come individui, cervelli e anime. Ma ci dovrebbe bastare come capi, questo sì.
Invece ho la sensazione che spesso non ci basti, e che cerchiamo di farne altro.
Che non è un “portare le proprie passioni e i propri talenti nel servizio”, anch’essa cosa degna d’encomio. O forse lo è stato, o voleva esserlo, o poteva, e poi è diventato qualcosa di troppo: è diventato “scoutismo e”.
Riesco a immaginarne almeno tre.
“Scoutismo e show business”. L’ho intravisto per la prima volta da caporeparto a un San Giorgio, quando, durante quello che in programma era segnato come “fuoco di bivacco”, si sono impiegati riflettori, fumogeni, amplificatori e compagnia bella, ma neanche un kamaludu. Parlo anche di reparti costumi con tanto di ferro da stiro che occupano almeno due macchine di media cilindrata, di attività (l’aborrito vocabolo, ma si usa e quindi usiamolo) così complesse da aver bisogno di istruzioni con l’indice analitico – tutto questo, ovviamente, per i ragazzi. Questo tipo di scoutismo ambisce a rendersi più alla portata dei ragazzi facendo quel che fanno i loro modelli “di fuori”, ammantandosi di un ask the boy ridotto a slogan che porta ad assumere le forme “che a loro piacciono” (forme di qualcun altro, che qualcun altro veste meglio di noi) invece di “far loro piacere” le forme che sono già nostre e che nessun altro sa usare come noi. Sembra uno schema mentale che limita, e ovviamente è uno schema mentale che limita, ma un limite non serve solo a separarci da qualcosa, dove separare significa anche creare il distacco che permette di scegliere lucidamente cosa e come prendere, verso dove e di quanto allargare il recinto. Un limite serve anche a custodire ciò che ha al proprio interno. A mantenerlo coeso, a non farlo disperdere. E quello che noi possiamo e dobbiamo custodire è il nostro modo di fare le cose. Ecco, io credo sinceramente che se questo tipo di scoutismo esiste è perché a molti capi in realtà non piace il nostro modo di fare le cose. E mi ostino a pensare che la passione sia una pandemia inarrestabile, quando è sincera.
“Scoutismo e noia”. Il modello sopra, adattato al mondo degli adulti. Mi è capitato a un’assemblea di Zona: cinquanta persone sedute e una persona in cattedra che parla. Parla, essenzialmente, di libri, di articoli, di numeri, di critica, di passi biblici raffrontati al PIL di piccoli Stati subsahariani. Lo scoutismo che, costretto suo malgrado a indossare l’uniforme del gioioso e scanzonato fratello maggiore quando ha attività coi ragazzi (orrore), non vede l’ora di poter tornare a fare il bimbo grande e progettare, assieme ai suoi stimati colleghi, un maestoso ciclo di conferenze che risolva finalmente la vexata quaestio “chi è più forte fra Mosè e Noè”, seguito da scrupolose mozioni sul numero e nome dei brevetti che gli esploratori continuano a non prendere, o su quale aggettivo sia più congruo, se “prudente” o “assennato”, in base alla sua etimologia, occorrenza e fonetica, per redigere il biglietto d’auguri allo IAB R/S. Perché questo è quello che piace agli adulti: sottigliezze linguistiche, rendicontazione, parlare con voce lenta e monocorde fra due pause caffè. Agli adulti piace annoiarsi. Quello che fanno coi ragazzi, travestirsi, accendere fuochi, cantare eccetera, è per l’appunto roba da ragazzi: che bello essere di nuovo fra adulti, adesso sì che possiamo annoiarci in pace. Ora, è vero e non si può negare, fare servizio è anche rompersi le palle su schede di iscrizione, virgole e burocrazia, ma non so perché ero sempre stato convinto che si trattasse di un male necessario; pare invece che il modo di fare le cose dello scout adulto sia proprio questo. Probabilmente sono io che non ho ancora raggiunto quel livello di maturità, e se Dio mi aiuta morirò prima di esserci arrivato.
“Scoutismo e buoni sentimenti”, quello più terribile, perché sembra fare del bene ma del bene non fa. Perché sembra essere discernimento, condivisione, relazione, verifica, fratellanza scout, sembra essere un sacco di cose belle e invece è terapia. Gli Ateniesi del V secolo a.C., dice Aristotele (faccio incursione nello “scoutismo e noia”, mi scuserete), andavano a teatro per vedere azioni “pietose e terribili” e dunque provare “terrore e pietà” e “purificarsi” di questi moti psichici nocivi senza bisogno di macchiarsi le mani di altrimenti inevitabile sangue. Ecco, è proprio così. Uno scoutismo che si fa pornografia emotiva, continuo display di immagini graziose, articoli infuocati, toccanti testimonianze, riflessioni profonde, condivisioni irripetibili, confessioni che Agostino levate, proclamazioni shakespeariane di sempiterni valori. Qualcosa che di per sé è vitale per l’individuo, vitale per il capo, vitale per la comunità, ma che a un certo punto diventa troppo. Diventa ridondante, diventa vuoto, diventa social. Diventa corsa a chi ne dice di più, più profonde e più originali (o all’inverso più essenziali, come se l’anti-retorica non fosse di per sé retorica), una gara a chi vomita emozioni più lontano, un grande pianto associativo, libero, liberale e liberatorio. Macera nel sento senza mai risolversi in agisco (e intendo agisco per i ragazzi) perché autoeroticamente si completa in se stesso, non mette radici, non fa. Questo lo vedo succedere, lo sento quando accade a me, e mi fa una gran paura. Perché la potenza e la verità di relazione che si crea nello scoutismo non può e non deve diventare terapia di gruppo. Perché ci sono capi che piangono guardando le foto dei loro lupetti, che quando sono a scout “sentono di poter essere se stessi”, e poi non vengono a staff. Perché il servizio è passione, non sentimento.
Confidando di non essere stato eccessivamente polemico, anticipo la possibile risposta: sì, sono consapevole che anche questo è uno “scoutismo e”. Forse uno “scoutismo e polemica”, appunto, oppure uno “scoutismo e integralismo” (c’è chi mi ha dato del talebano qualche anno fa, forse per la barba), chissà. “Scoutismo e sarai bravo te”? Non importa.
Chiudo il discorso con fretta un po’ colpevole, ma con la speranza di aver quantomeno fatto ridere qualcuno. La risata è un’arma sottile e, sul lungo termine, devastante. Uno spillo all’idrogeno.
Io amo lo scoutismo. Sono scout, o meglio cerco di esserlo, perché essere scout, io credo, è la lotta di una vita.
So anche che siamo in tanti ad amare lo scoutismo.
Prego che quell’impulso a restare fedeli a noi stessi, puri, a non snaturare ciò che amiamo, resti sempre vivo in tutti noi e non si spenga mai.
Dimenticavo.
Butto l’ultimo sassetto nella pozza d’acqua.
Massimo sfoggio di sintesi: “scoutismo e coronavirus”.
Buona Strada.
Ludovico Marcucci, Bologna
Gli articoli della sezione “La parola ai Capi” sono opinioni personali dei singoli autori. Non rappresentano la voce di Pe né di AGESCI.
Nessun commento a "Lo scautismo e"
I commenti sono moderati.
La moderazione potrà avvenire in orario di ufficio dal lunedì al venerdì.
La moderazione non è immediata.
I tuoi dati personali, che hai fornito spontaneamente, verranno utilizzati solo ed esclusivamente per la pubblicazione del tuo commento.