Belli e in vista, belli perché performanti, belli perché facciamo cose belle, belli perché stiamo coi belli. Il corpo dei ragazzi, ma spesso anche il nostro, si sente convocato a questa corsa all’esporsi. Senza alcuna mediazione, né sociale oppure artistica. Una competizione sulle performances dei nostri impegni sportivi, sulla freschezza dei nostri corpi, sulla ricchezza dei nostri accessori di vita, ma che pericolosamente non ne esclude anche aspetti più intimi. Un challenge senza tregua che può darci sfuggevoli momenti di visibilità – sui social ma non solo.
Sovvertiamo invece questa costruzione con l’ipotesi «io sono bello». Bellezza non come traguardo, ma come punto di partenza. La mia mamma, il ragazzo, mio figlio mi amano infatti semplicemente perché sono io. Ma se anche il loro amore fosse imperfetto, quello del Nostro Padre non lascia invece indietro nessuno.
Abbraccia anche me, che mi sento un piccolo scorfano perdente nella gara della vita. Bello per intero, quindi, dentro e fuori, perché Lui mi ama come un figlio.
L’esercizio di sentirsi amati ha tuttavia tanti nemici. Il nostro super-io, che ci fa sempre vedere la distanza incolmabile tra noi e la perfezione – da cui l’utilizzo per nulla marginale di droghe se pensiamo che circa ¼ della popolazione studentesca, più di 600.000 persone, ha consumato almeno una sostanza illegale nell’ultimo anno –. La logica umana del merito, secondo cui è solo comportandoci bene che Lui ci ama. Non da ultimo, la comodità di un alibi pronto all’uso – il non sentirsi oggetto dell’amore – per giustificare le piccolezze e invidie quotidiane verso gli altri. Ancora più difficile guardare i nostri ragazzi, ricercandone sempre la bellezza e trovando il modo perché loro per primi la vedano, anche quando il morale è a terra. Perché sentono di aver deluso delle aspettative, perché non capiscono cosa in loro non va oppure perché i loro progetti si sono scontrati con il cinismo degli adulti… Approcciamoli allora con empatia, condividendone lo stato d’animo, comprendendone la fatica e la stanchezza. Mettiamo poi una parola di verità su ciò che è successo. Non addolciamo la realtà, ma circoscriviamola per comprenderla, con sincerità. Infine, e questa è la parte su cui fatichiamo di più, trasmettiamo incondizionato sostegno. Attraverso le nostre parole, facciamo loro sentire che il Suo sguardo fissa sempre la nostra reale bellezza, qualsiasi cosa succeda. E ogni gara, allora, anche la più impossibile, è già stata vinta.
[Foto di Margherita Ganzerli]
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