«Questo progetto sarà impossibile da portare avanti». Vi sarà capitato di pensarlo, davanti a delle sfide pachidermiche, che voi stessi vi siete impunemente piazzati nel Progetto educativo di Gruppo. Roba di una difficoltà da chiedersi se forse eravate tutti ubriachi quando avete pensato di Comunità Capi di imbarcarvi in un casino del genere. Sarà capitato sicuramente anche a Tommaso, rimuginando su quella folle idea di portare lo scautismo nel campo rom della periferia della città, isolato, ignorato, ma tanto vivo e pieno di bambini e ragazzi. Tutto era iniziato quando due mamme avevano portato i loro piccini durante la caccia a tema festa di Carnevale e avevano chiesto «possono giocare anche loro? Anche noi abitiamo questo quartiere». Ed era vero, anche se a tutti faceva comodo fingere che non fosse così; fingere di non vederli, al di là delle montagne dei rifiuti, e del perimetro di quelle che erano poco più che delle baracche; al di là dei roghi che scoppiavano un giorno sì e l’altro pure. Fingere che quei ragazzi dovessero per forza avere un percorso diverso, amici diversi, un’educazione diversa, speranze diverse, persino sogni diversi dagli altri bambini italiani. Fu allora che la sua Comunità Capi decise di dire di no, di mescolarsi, di portare la loro proposta educativa anche in quel luogo ignorato, di conoscere e farsi conoscere, sempre con il gioco (e mai per gioco), col sorriso, con la costanza e la testimonianza che un percorso comune era possibile.
Facile eh? Nemmeno per un secondo. C’è stata la diffidenza da parte di alcuni genitori e dei ragazzi più grandi. Poi la difficoltà di far funzionare il metodo scout e di applicare le regole dove spesso di regole non ve ne erano. A volte anche un po’ di paura e di difficoltà nel reprimere il proprio pregiudizio (tu quoqe, capo!). Non ultimi i pomeriggi freddi e piovosi, il faro rotto nel piazzale fangoso. La bicicletta rubata alle porte del campo e restituita qualche tempo dopo («Se sapevo che era tua mica la prendevo!»). E quei momenti in cui di fronte a tutta questa fatica veniva da chiedersi se fosse valsa a qualcosa. Se almeno un centesimo del nostro debito verso quelle vite di povertà potesse trovare una compensazione attraverso la proposta scout, che non guarda il colore della pelle né la diversa cultura né la classe sociale, e nella quale tutte le labbra sono uguali quando su di esse affiora quel del nostro meglio!.
Vorreste chiedere a Tommaso com’è finita questa storia, di una Comunità Capi coraggiosa e di quei ragazzi che si sono fatti travolgere dal gioco chiamato scautismo? Ci sarebbe piuttosto da dire “queste storie”, perché ognuna ha preso la sua strada quando il campo è stato progressivamente chiuso e le famiglie sono state alloggiate altrove in modo più dignitoso. A lui piace pensare che ognuna abbia portato con sé una briciolina di quelle amicizie e di quell’allegria spensierata che avevano costruito insieme, un segno vivo di speranza e fiducia nel prossimo. Di quella voglia irrinunciabile di “starci” e di lottare per il bene.
[Foto di marco Belardinelli]
Nessun commento a "STORIA DI UN CAMPO ROM E DI UNA CO.CA. CHE…"
I commenti sono moderati.
La moderazione potrà avvenire in orario di ufficio dal lunedì al venerdì.
La moderazione non è immediata.
I tuoi dati personali, che hai fornito spontaneamente, verranno utilizzati solo ed esclusivamente per la pubblicazione del tuo commento.