Incaricati e assistente ecclesiastico branca R/S
La relazione come obiettivo, strumento, ambiente
Il punto della strada è declinato in uno schema che tutti ben conosciamo: io e me stesso, io e Dio, io e gli altri, io e il mondo.
Già la formula di base “io e …” ci dice che qualsiasi dinamica di crescita e di vita non può prescindere dal mettersi in collegamento e in confronto con ciò che è altro da noi, non può prescindere dalla relazione.
È facile immaginare come in branca R/S l’aspetto della relazione pervade completamente la vita, è obiettivo, è strumento, è ambiente.
La comunità è il luogo delle relazioni tra pari, è uno dei contesti forti della vita di branca in cui i rover e le scolte spesso investono molta parte delle loro aspettative e delle loro energie. L’altro, nella figura del compagno di strada diventa colui e colei di cui imparo ad apprezzare la complessità, fatta di bellezze e fatiche. E quella complessità mi arricchisce, mi stimola, a volte mi sostiene, altre mi richiama: diventa educante, perché capace di farmi andare oltre me stesso, accettare l’incontro con l’altro, accettare il cambiamento che la relazione richiede, mi dà occasione di sentirmi conosciuto e di conoscere più a fondo, mi stimola a superare il desiderio del mio bene, per ricercare un bene più prezioso e completo, quello comune.
Ma anche la comunità non può bastare a sé stessa, non può richiudersi al suo interno in una forma particolare di intimismo. E così le relazioni che si costruiscono hanno bisogno di andare oltre, di trovare sbocchi nuovi. La dimensione della strada offre questa possibilità.
Fare strada ha sempre il potere di sciogliere i costrutti che interponiamo tra noi e l’altro, a volte volontariamente, altre volte senza consapevolezza. Camminare insieme richiede un impegno diverso rispetto al camminare da soli: la meta da raggiungere e i tempi del viaggio perdono la loro centralità, perché diventano subordinati al come vengono raggiunti e rispettati. Per camminare insieme occorre aspettarsi, supportarsi, comprendere la necessità di accogliere e rispettare l’altro, arrivare a desiderare profondamente che nessuno rimanga indietro.
E ancora, fare strada apre alla dimensione dell’inedito, di quello che non si conosce. Alimenta il desiderio di nuovo, di scoperta, di avventura che è in tutti noi e ancor più nei rover e nelle scolte, offre la possibilità di entrare nel mondo e nella vita attraverso incontri, racconti veri, testimonianze.
Apre a una conoscenza del mondo che non è quella raccontata sui libri, ma si fonda sul toccare con mano, vite e sentimenti. Porta a conoscere i bisogni dell’altro, ciò che è bello e ciò che non lo è, per noi e per gli altri.
Anche nel servizio, l’aspetto relazionale è la componente fondamentale. Sicuramente siamo mossi dal desiderio di compiere il bene, di rispondere a un bisogno incontrato. Sicuramente siamo chiamati a farlo con la migliore competenza possibile, perché ciò che facciamo sia “il bene nei fatti” e non solo un moto emotivo.
Tuttavia nel servizio scopriamo spesso che quanto possiamo davvero dare difficilmente “risolve il problema”, ma che invece ciò che è determinante, ciò che qualifica il servizio è lo stile delle relazioni che sappiamo costruire. È la capacità di amare l’altro che diventa l’esperienza salvifica, per noi prima di tutto. Ci sentiamo davvero di essere “serviti”, cioè di avere avuto un senso quando usciti da noi stessi ci siamo messi nella logica del dono, ci siamo lasciati trasformare e abbiamo scoperto, alla fine, di essere stati noi stessi amati. Decade la dinamica “monodirezionale” di chi avrebbe voluto risolvere un problema e fiorisce la dinamica relazionale di chi ha capito che “nessuno si salva da solo”.
Ecco allora che le nostre comunità sono chiamate a divenire comunità aperte, ad abitare i territori cercando, costruendo, curando relazioni al di fuori. Un clan è chiamato a guardare fuori, molto più di quanto si guarda dentro.
La cura e la bellezza delle relazioni diventa modo per conoscere e riconoscere la relazione con Dio.
Ecco allora che lo spazio della preghiera, dell’ascolto, del dialogo diventano luogo per trovare significato e rileggere le relazioni quotidiane.
Ci possiamo chiedere in questo contesto quale sia il ruolo del capo.
Sappiamo di essere chiamati ad essere parte della comunità, a camminare (davvero, fisicamente e con il cuore) a fianco dei nostri ragazzi, a confrontarci con loro, favorendo il loro protagonismo in uno stile che non si limita a lasciare andare allo sbaraglio, ma facilita, supporta, capisce quando è il momento di rischiare e osare e quando quello di sostenere. Il capo è colui che è mosso non tanto dalla riuscita dell’attività, ma dalla progressione personale dei ragazzi.
E ancora il capo è quello che favorisce la verità delle relazioni: lavora, quasi sottotraccia, per creare un contesto in cui fare “uno” della persona. La persona non è solo il rover o la scolta nelle due ore di riunione, ma qualcosa di più complesso, che non può essere rappresentato dalle risposte giuste o sbagliate che è in grado di dare, né dalle scelte giuste che può sostenere o dalle fatiche che è chiamato ad affrontare.
Lo stile del capo è uno stile di attenzione alla persona tutta, è lo stile di chi alle risposte esatte sempre preferisce abitare le domande, anche scomode, con il desiderio di stare nella relazione con le persone e con il mondo in modo significativo e non precostituito.
[Foto di Camilla Lupatelli]
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