Il marchio dello scautismo
Circola in rete un simpatico filmato che vede, in un’edizione dello Zecchino d’Oro di ormai parecchi anni fa, il mago Zurlì alle prese con un bambino di Vicenza. Alla domanda su cosa rendesse bella la propria città, il bambino risponde pieno d’entusiasmo: «Le luci, Babbo Natale, i sassi, i coriandoli»… Elementi apparentemente modesti, ma che descrivono il suo mondo e ciò che lo rende felice.
Sono certo che se qualcuno ci ponesse, a bruciapelo, la domanda «che cosa c’è di bello negli scout?», faremmo fatica a descriverne razionalmente il significato. Io personalmente balbetterei qualcosa come: «Un fuoco, una tenda, i piedi in un ruscello, una pacca sulle spalle»…
Perché per cercare di spiegare cosa per me renda belli gli scout, dovrei inevitabilmente scendere nel mondo dell’ineffabile (lett. di «ciò che non si può dire»), cioè di quelle cose che non posso esprimere a parole ma che entrano prepotentemente nel mio vissuto; che non posso descrivere adeguatamente ma che vanno a interrogare la mia sfera più intima, a svelare la mia nuda verità. Credo che ognuno di noi possieda in cuor proprio quella esperienza di bellezza, anzi, mi permetto di dire “di felicità”, che racchiude il senso del tutto, che trascende i limiti del linguaggio, andando ben oltre, e che ci ha in qualche modo marchiati. Mi domando quanto (poco) sarebbe stato utile lo scautismo, se non ci avesse marchiati di felicità.
Ho provato a ragionare su quel marchio, e ho scoperto un segreto. Lo scautismo è un bene raro che va custodito gelosamente, perché è testimone dell’unica cosa che non si può ripetere nella vita: il tempo. Preserva il ricordo della ragazza o del ragazzo che eravamo, conosce la fatica fatta per essere la donna o l’uomo che siamo, che ci ricorda l’entusiasmo che avevamo e quello che ci è rimasto, gli errori da cui ci siamo salvati e quelli da cui ci hanno salvati. È il complice silente, il marchio sottopelle, il testimone di quando – a quattordici, a vent’anni – potevamo ancora essere e diventare “tutto” ciò che desideravamo.
Un piccolo esercizio che possiamo fare è provare a chiedere a noi stessi se sappiamo riconoscere e decifrare, per esempio al termine di un campo estivo o di una route, cosa ci ha resi felici, capi e ragazzi (e qui ognuno avrà un bell’elenco di cose…). E allora il compito che a noi capi assegna il nostro testimone silente è quello di rileggere (meglio: verificare) l’esperienza che abbiamo offerto loro. Se abbiamo appena scalfito la superficialità, o se abbiamo giocato bene il tempo che ci è dato, facendo realmente in modo che per i ragazzi, e per noi stessi, si perpetuasse la sfida per riaffermare che «nessun profumo vale l’odore di quel fuoco».
È il marchio di felicità, è l’impegno attivo che assumiamo nei confronti delle generazioni future: costruire un contesto nel quale tracciare esperienze cariche di significati per far vivere loro una vita piena. È un compito che ci spinge a riflettere sulle lezioni apprese e sulle sfide superate, guidandoci nella nostra missione di educatori e di modelli di comportamento positivi. Nella consapevolezza che ogni attività giocata male è persa, e che il tempo e le occasioni che abbiamo per incidere profondamente sulla vita dei ragazzi sono molte meno di quel che pensiamo.
Ancora, un ulteriore piccolo esercizio che possiamo fare è provare a chiederci
… Se abbiamo contribuito a costruire la felicità nel quotidiano dell’azione educativa, creando una comunità in cui ciascun ragazzo possa essere sé stesso senza paura di giudizi o discriminazioni, modellando una trama inclusiva, in cui ognuno possa esprimere liberamente idee, sentimenti e desideri, contribuendo così a un ambiente in cui tutti si sentano accolti e valorizzati.
… Se abbiamo favorito una progressione personale verso la felicità, nelle piste, nei sentieri e nei punti della strada di ciascun ragazzo. Se abbiamo veramente offerto loro un’opportunità per diventare migliori di quel che sono già; per aiutarli a scoprire ciò che li appassiona, ciò che li rende felici, e incoraggiarli a dare il meglio di sé mentre sviluppano competenze pratiche, fiducia e un senso di realizzazione non solo per sé stessi, ma da mettere anche a servizio degli altri.
… Se nelle relazioni siamo stati capaci di fornire loro gli strumenti per entrare nelle pieghe e nelle piaghe della vita, ad accoglierci così come siamo e a supportare gli altri nei propri percorsi. Se abbiamo permesso una continua esplorazione di sé stessi e degli altri capolavori che ci sono affidati, sostenendo i ragazzi nella loro crescita emotiva, personale, e nell’espressione del loro pieno potenziale.
… Se siamo finalmente riusciti a vedere i ragazzi fiorire: «Perché tu sei prezioso ai miei occhi», come dice la canzone.
D’un tratto il vero marchio dello scautismo ci sembrerà chiaro. Perché una comunità felice rende le persone felici, e persone felici contribuiscono a creare una comunità felice.
[Foto di Andrea Pellegrini]
Un commento a "PROGRESSIONE PERSONALE ALLA FELICITÀ"
Francesca 4 Giugno 2024 (7:39)
Di ritorno da una route di Coca dove abbiamo fatto esperienza di strada comunità e servizio confrontandoci sul senso del nostro agire educativo posso dire grazie per questo contributo che pone l’attenzione sugli aspetti dell’esperienza, della verifica e della crescita del ragazzo unico e irripetibile. Occorre puntare sempre in alto e non accontentarsi!
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