Mi è tornato alla mente l’aquilone pensando alla bioetica intesa come quella parte dell’etica che si occupa dei problemi inerenti alla tutela della vita fisica ed in particolare le implicazioni etiche delle scienze biomediche.
Per poter volteggiare e librarsi in aria in maniera esemplare l’aquilone ha bisogno del vento, ma nello stesso tempo di un (seppur sottile) resistente filo e di un ancoraggio saldo: altrimenti il vento sarebbe la sua fine, lo porterebbe alla deriva; in ugual modo l’assenza di vento lo lascerebbe a terra, magari bellissimo, ma non in cielo a “danzare” facendo alzare gli occhi al cielo anche al passante chiuso nei suoi pensieri. Così anche la bioetica non può trascurare nessuno di questi due aspetti. Uscendo dalla metafora: da una parte il vento, cioè la vita concreta, le scoperte e le sfide che la animano sui vari piani (etico, giuridico, medico, sociale, etc..) nella ricerca di una pienezza di senso e di bene autentico per sé e per gli altri; dall’altra un filo teso e un ancoraggio sicuro, cioè i princìpi e i criteri di base che consentono di decifrare quanto accade e di valutarlo con verità.
E’ proprio sui princìpi di base e sui criteri che si gioca la partita più importante: la questione antropologica rimane il fulcro, il punto di partenza di tutte le riflessioni in ambito bioetico. Al centro c’è la domanda: “Cos’è, o meglio, chi è l’uomo?” “Come può portare a compimento ciò che è chiamato ad essere?” Anzi, andando ancora più in profondità: “Cosa è chiamato ad essere?” L’antico adagio “uomo diventa ciò che sei” che metteva in luce tutta la portata valoriale di questo essere unico e irripetibile sembra aver perso ora la sua forza ed evidenza.
E’ chiaro che sulla questione antropologica la visione cristiana ha un impatto particolare poiché vede l’uomo come creato da Dio a sua immagine e somiglianza, redento da Cristo Signore, il quale “proprio rivelando il mistero del Padre e del suo amore svela anche pienamente l’uomo a se stesso e gli manifesta la sua altissima vocazione” (Conc. Vat. II, Gaudium et spes, 24). Questo aspetto non deve però trarre in inganno: il punto in questione non ha a che fare, come qualcuno potrebbe pensare, con l’eventuale differenza tra etica (e bioetica) della ragione ed etica (e bioetica) della fede ma con il divario aperto tra approcci antropologici (visioni dell’uomo) che riconoscono il valore di ogni essere umano in quanto tale con un rispetto incondizionato della sua inviolabilità e approcci che escludono questa possibilità.
Il divario profondo è dunque con quel “pensiero postmoderno” che non contempla l’esistenza di valori e principi immutabili e trans-situazionali, e sfugge a qualsiasi discorso sui fondamenti oggettivi dell’essere e del valore: come un aquilone che, senza più nessun filo e nessun aggancio, va dove il vento lo conduce avendo però come unico destino la deriva. Nel pensiero postmoderno l’idea di una verità universale sul bene conoscibile dalla ragione umana, e concetti come natura umana e legge morale naturale che fondano anche la possibilità di un’etica laica condivisa almeno su alcuni punti essenziali, sono stati semplicemente estromessi, come pure quell’argomentazione kantiana che, pur partendo da altri presupposti, era arrivata a cogliere come ci possano essere dei valori universali, primo tra i quali il trattare la persona come un fine e non come un mezzo. Tutto questo viene spazzato via.
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di fra Massimiliano Michielan
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