ESSERE POPOLO

di redazione pe

Insieme, nella denuncia e nell’annuncio

«Oggi è morto un prete ma è nato un popolo»: questo disse monsignor Antonio Riboldi, vescovo di Acerra, quando don Peppe viene assassinato. La sua morte fu un punto di svolta: il funerale fu l’occasione per esprimere la propria indignazione e volontà di cambiamento. Quel giorno, il 21 marzo 1994, primo giorno di primavera, la rabbia vinse la paura. Le lenzuola bianche appese a centinaia ai balconi della cittadina simboleggiarono l’innocenza e la ribellione contro la camorra.
Don Peppe Diana è stato ucciso non solo per il suo impegno contro la camorra, ma anche a causa delle assenze dello Stato e della società civile. Ha speso la sua vita di sacerdote in un territorio allora abitato dalla violenza codificata come garante di relazioni e amministratrice di giustizia. Nello Mangiameli, suo fratello scout, ricorda il dolore di don Peppe nel vedere i funerali dei giovani a Casal di Principe, con le persone nascoste dietro le finestre. Aveva orrore delle tante, troppe bare bianche. Don Peppe, per vocazione e spirito di servizio, decise di non tacere. Era consapevole dei rischi che correva. Sapeva che il suo impegno pastorale lo avrebbe inevitabilmente messo in rotta di collisione con un sistema valoriale fondato sui violenti soprusi e sull’impunita illegalità. E don Peppe agiva, come segno di contraddizione, e non era capace di fare altrimenti: il titolo “prete anticamorra” apparso su un quotidiano forse disegnò, involontariamente, un cerchietto rosso intorno a lui, identificandolo come obiettivo per la malavita.

Nel 1991 don Peppe recupera il documento Per amore del mio popolo, non tacerò della Conferenza episcopale campana del 1982, lo sintetizza e lo riattualizza in un semplice foglietto, insieme ad altri sacerdoti della forania di Casal di Principe, prendendo chiara posizione nei confronti del fenomeno malavitoso, e richiamando la comunità a non restare indifferente. Nasce Per amore del mio popolo, l’appello poi diventato suo testamento spirituale, che viene distribuito nella notte di Natale di quell’anno. Con lui ci sono anche i giovani della parrocchia, dell’Azione Cattolica, degli scout. Insieme, nella denuncia e nell’annuncio: «Assistiamo impotenti al dolore di tante famiglie che vedono i loro figli finire miseramente vittime o mandanti delle organizzazioni della camorra. Come battezzati in Cristo, come pastori della Forania di Casal di Principe ci sentiamo investiti in pieno della nostra responsabilità di essere “segno di contraddizione”».

Don Peppe credeva fermamente nel Vangelo come strumento di cambiamento. L’onestà nell’illegalità, la speranza nella disillusione, la relazione nella solitudine, l’amore nella violenza: quell’appello di martire di Cristo per amore del suo popolo ci spinge ancora oggi a un sussulto di fede e impegno.

Don Peppe era uno scout, uno di noi, che ha vissuto la sua Promessa fino in fondo.

Devi andare a conoscerlo, a Casal di Principe. Perché comprenderai davvero “a cosa serve” lo scautismo. Perché esistono parole nuove e azioni nuove, capaci di generare cambiamento. Perché ti renderai conto di come il seme del suo martirio abbia portato frutto, di come la memoria si sia fatta impegno concreto, vivo, operante, per molti: «Quello che ascoltate all’orecchio, predicatelo sui tetti!». Negli anni, migliaia di guide e scout sono passati per le vie di Casal di Principe, facendo tappa anche a casa della famiglia Diana. Il legame, la reciproca appartenenza fra don Peppe e lo scautismo, si è fatto sempre più profondo: «Quando vi vedo entrare dal portone con quelle camicie azzurre è come se vedessi entrare il mio Peppino», diceva sempre mamma Iolanda. E oggi siamo popolo in cammino sulla strada della rinascita e della speranza sognata da don Peppe. Una strada che si è fatta route grazie a mamma Iolanda, papà Gennaro, i fratelli Emilio e Marisa, Augusto Di Meo, il testimone oculare dell’omicidio che ha avuto il coraggio di denunciare, e grazie a Valerio Taglione, che amava ripetere: «Non ho mai visto seminare bene e non raccogliere». Ed è proprio così. Dobbiamo a lui e a tutto il Comitato don Diana se oggi a Casal di Principe tanti si spendono per una società libera e giusta.

Ora tocca anche e ancora a noi: è sempre più tempo di far conoscere Peppe in tutti i nostri gruppi. E di spronarci e sostenerci, come Chiesa, nel cammino per far riconoscere don Peppe come martire della fede. Non certo per farne un’immaginetta da santino, quanto per lasciarci guidare da chi, seguendo Gesù Cristo, ha scelto da che parte stare: fuori dalla sacrestia, in mezzo alla vita e alle sue contraddizioni, con la serenità e la speranza di chi si nutre di Dio e della sua Parola. «Peppe vi protegga perché possiate essere liberi, responsabili e consapevoli»: portiamo nel cuore l’augurio di Marisa Diana e l’entusiasmo delle guide e degli scout del reparto Casal di Principe 1, in testa al corteo di questo trentennale con i loro guidoni al cielo. Sono loro i frutti preziosi del martirio di don Diana.

Nel cammino della Route nazionale delle Comunità capi, Generazioni di felicità, la testimonianza di don Diana ci indica ciò che è irrinunciabile per una vita felice, capace di generare felicità. Perché fra denuncia e annuncio, il Regno dei cieli è qui, ora. E noi siamo chiamati a costruirlo. «Risaliamo sui tetti e riannunciamo parole di Vita». Insieme, si fa. Passo dopo passo.

[Foto di Nicola Cavallotti]

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