Faremo ancora un grande gioco notturno? Manderemo i partenti in hike? Più che un “dopo” o un “ritorno al prima” siamo chiamati a vivere una ripresa graduale. E lo scautismo ha un ruolo primario nel costruire una quotidianità sostenibile. Ne parliamo con il sociologo e formatore Gino Mazzoli
«Più che un “dopo”, un “ritorno al prima”, siamo chiamati a vivere un lungo “durante”, già iniziato.
Prepariamoci a una ripresa graduale con molte nuove complicazioni: un tempo aperto a prospettive insieme inquietanti e promettenti. Che non offre sicurezze. Ed è in questo tempo che dobbiamo allestire una quotidianità sostenibile».
«Il corpo è la memoria dei nostri limiti. Ed è anche il veicolo della nostra conoscenza più importante. Frasi di uso corrente come “Voglio guardarlo negli occhi per capire”, “Una stretta di mano per me vale più di un contratto scritto”, “L’altra sera nel gruppo ho sentito una bella energia”, poggiano su una memoria millenaria che ci insegna come la costruzione della fiducia, l’apprezzamento di prodotti complessi (come quelli sociali, educativi, politici e psicologici), ma anche la produzione creativa, esigano un’ineliminabile quota di corporeità. Nel ripensare l’educazione dobbiamo tenere conto che la distanza rischia di far fuori lo strumento chiave della costruzione della fiducia: lo sguardo occhi negli occhi, il sapere muto del corpo in presenza. Una conoscenza che va oltre il sapere logico-razionale, perché è più profonda».
«Le differenze tra vulnerabili e vulnerati si sono già assottigliate: il vuoto di fare ha prodotto la percezione del tipo di vita priva di senso che molti stavano facendo. Si saranno esasperate tensioni intra-familiari in situazioni che si reggevano su equilibri basati sul fatto di essere tutti fuori di casa la maggior parte della giornata. Se questa è un’esperienza di milioni di persone, la sofferenza psichica diventa un problema collettivo. Dobbiamo quindi allestire una quotidianità sostenibile, reinventare la comunità, con spazi – a distanza – e tempi – più lenti – da reinventare: è un obiettivo troppo grande per essere scaricato sulle sole spalle dei servizi pubblici. Lo scautismo ha un ruolo di primo piano nella costruzione di questa prospettiva».
«Bisogna rimboccarsi le maniche ed essere creativi. L’obiettivo più urgente è ritornare in contatto con le persone e ascoltare cosa hanno vissuto nel tempo ritirato, nelle loro famiglie, cosa hanno sperimentato i bambini e le bambine, gli esploratori e le guide i rover e le scolte. Serve una mobilitazione avvicinante: numeri elevati di persone che ne avvicinano tantissime altre per portare aiuto, sapendo che la distanza delle condizioni economiche tra aiutanti e aiutati si va assottigliando sempre più. Servono dei ponti per entrare nelle case, degli oggetti-pretesto per avvicinarsi, ascoltare e capire cosa è successo nelle famiglie. La nostra azione educativa dovrà quindi continuare ad avere un “doppio fondo”, che sarà necessariamente molto più capiente di un tempo; il gioco, l’avventura, il servizio sono elementi essenziali del metodo, ma risponderanno a bisogni ancora più profondi e fondamentali: la costruzione di fiducia, la cura dell’interiorità, la rigenerazione di legami sociali. Sarà necessaria una dose di lentezza nella cura di questo momento».
– La dimensione pubblica si è notevolmente ridotta: dobbiamo fare un lavoro di comunità. Siamo pronti?
«Questo nuovo lavoro di comunità è sostanzialmente un allestimento di territori: servono nuove competenze, anche nello scautismo. La costruzione di una comunità può essere solo un’opera collettiva, serve una visione d’insieme, simile a quella di un regista che coglie non solo le interdipendenze tra le varie parti, ma è anche in grado di prefigurarne lo sviluppo nel tempo, compiendo continue riconfigurazioni del campo, riletture continue dei progetti educativi. Sono competenze artistiche: leggere il nostro tempo e gli oggetti che occupano lo spazio, in maniera nuova, creativa, con nuove connessioni. Trovare strade nuove e nuovi modi di fare educazione senza lasciarsi congelare dal “non si può”. È una operazione di trasformazione creativa che paradossalmente darà forza e spinta alla nostra azione educativa».
«Questo tempo non è una malattia della storia, una disfunzione da eliminare. È un altro modo di vivere: nell’incertezza. Abbiamo perseguito l’ossessione della sopravvivenza più che la ricerca di una vita degna di essere vissuta. Si è vissuto “come se la morte non esistesse”. Era questa la malattia. Ma questa benedetta incertezza vuol dire anche che ogni giorno può essere vissuto più intensamente. Un proverbio sioux dice: “Quando sarai pronto a morire, sarai grande abbastanza per vivere». Buona strada.
Allestisce progetti partecipati
Gino Mazzoli, sociologo, è formatore e sviluppatore di Comunità. Insegna Competenze psicologiche nella progettazione complessa all’Università Cattolica del Sacro Cuore. Da 30 anni allestisce progetti partecipati, cercando di far collaborare i servizi sociali, educativi e sanitari con la comunità. Si definisce un «nomade allestitore di innovazioni per l’italico stivale».
[Foto di Nicola Cavallotti]
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