Vado o resto?

di Saverio Sciao Pazzano

Al pomeriggio insegno ai migranti. È molto utile, perché, in cambio di qualche parola di italiano, imparo come dire “Buongiorno” e “Buonasera” in wolof e mandinka. Ultimamente siamo già a qualche frase più complessa e, anche se faccio molti errori di sintassi, i miei studenti portano pazienza e scandiscono lentamente: se si rassegnano, non lo danno a vedere.

Da qualche tempo abbiamo messo mano all’Odissea, che è tante cose, ma soprattutto un racconto di viaggio, di emigrazione, di ospitalità. Un Ulisse che per parlare del suo naufragio usa il tigrino lo trovo molto vero, considerato che il “lettore” è davvero scampato a un disastro del Mediterraneo e sa di cosa parla. Molto più di me, che per sapere di cosa parlano quelle pagine sono dovuto ricorrere a cinque anni di Liceo e quattro di Università. È la vecchia storia dell’esperienza-simbolo-concetto e bisogna ringraziare che la vita sia fatta di così tante strade e incontri, perché a volte siamo tanto radicati nei nostri concetti da dimenticare il processo che ci ha portati lì: allora il concetto diventa falsato, è come guardare un nostro vecchio paio di pantofole e immaginare siano state loro a portarci sul Pasubio.

 
Ecco, è da quando trascorro i pomeriggi in questo modo che ricordo qualcosa di più sulla mia scelta di “restare” a vivere nel posto in cui sono nato. Si tratta di questo: poter-essere-felice. Ora che ho a che fare con persone in fuga dalla guerra e dalla fame la questione della felicità acquista un corpo più solido, ha molto a che fare con la giustizia e con la vita, ma anche con la terra.
Prima di questa mia veneranda età di trentasette anni sono stato un lupetto, poi un esploratore, quindi un rover. Avere vissuto questa progressione personale in Calabria ha avuto il suo impatto: andava molto di moda l’idea del “Lottare per restare, Restare per costruire”, che era lo slogan della Route Regionale R/S del 1976 e aveva lasciato un’onda lunga nel percorso educativo per tanti anni dopo. Provo a sintetizzare le fasi della mia consapevolezza nella scelta di restare:
– Lottare per restare, Restare per costruire. Ero molto giovane e l’idea di lottare in una terra dove molte cose sono in mano a balordi di una SPA chiamata ‘Ndrangheta era avvincente. Una nobile sfida.
– Resistere, resistere, resistere! A mano a mano restare diventava un atto di resistenza. Bisognerebbe descrivere tutte le situazioni in cui si viene costretti a difendere un diritto che qualcuno vuole venderti come privilegio. Sarebbero troppe, fidatevi sulla parola.
– Restare è un gioco bellissimo. È il tempo in cui le cose prendono forma, in cui si partecipa al cambiamento con una leggerezza matura, in cui stare insieme ad altri ti dà l’idea che davvero ce la si possa fare, che è una bella avventura anche se è difficile.
– Poter-Essere-Felici. Che è l’ultimo livello di consapevolezza fin qui raggiunto. E credo pure il definitivo.

 

Ha molto a che fare con l’ultimo messaggio di B.-P., soprattutto con quella parte in cui dice: “Credo che il Signore ci abbia messo in questo mondo meraviglioso per essere felici e godere la vita”. Sulla questione avrei molti aneddoti divertenti, ma non è qui lo spazio e credo, per di più, che tutto sia perfettamente sintetizzato in quel gran manuale di contempl-azione che è “La spiritualità della Strada”.

 
La consapevolezza del Poter-Essere-Felici ha completamente spostato la faccenda dell’andare/restare da un piano materiale ad uno spirituale. Meglio, da una riflessione molto concentrata sul luogo, sul territorio, sulle radici ad una più focalizzata sulla persona, sul diritto alla felicità, sul dovere di giocare questo gioco con grande serietà, sui motivi per cui quel luogo deve tornare bello e giusto. Avere a che fare con persone costrette, pena la vita, a lasciare la propria terra, ti porta inevitabilmente a considerare sotto una prospettiva differente la tua scelta di andare o restare in Italia o nella tua Regione.

 
Innanzitutto, nonostante le condizioni sociali, culturali, lavorative del posto in cui sono nato e vivo, a me è concesso di scegliere. È questo il punto: io posso scegliere. E scelgo di essere felice. Non c’è sfida più interessante per un capo che dare senso a questa parola, muovere esperienze che possano sempre più collocare questa felicità dalla sfera piccola dell’io a quella del “mai senza l’altro”.

 
Ma cosa ha a che vedere questo con le nostre comunità R/S o con le nostre comunità capi che si svuotano periodicamente per gente che va via a studiare o a lavorare? Beh, se non altro, pensarci su ci tira fuori dalle pastoie procedurali e di efficientismo in cui spesso rischiamo di cadere, quasi un’azienda che deve portare risultati, presi dalla necessità di riempire buchi e far combaciare i tasselli. Presa così è sempre una sfida persa, al massimo pareggiata: se si vince è grazie al buonsenso del Buon Dio, che risolve tutti gli inghippi.

 
Tornare a riflettere sulla Felicità, non al modo delle pubblicità e dei centri estetici, ci mette a respirare aria buona: significa fare sintesi di un percorso in cui una preda, una caccia, l’odore del fuoco, la pioggia sulla tenda, il-buonissimo-brodo-pieno-di-moscerini-e-aghi-di-pino, la cucina di fango che traballa, la meta che arriva dopo molte fatiche (ecc.ecc.ecc.) non diventano ciò che io “so fare”, ma ciò che io sono: una persona che sa cosa sia la felicità e la vuole per gli altri e la vuole insieme agli altri.

 
Se questo diventa il cuore, non c’è più colpa o coraggio a lasciare o a restare in Italia, a lasciare o a restare nella città in cui si è nati. Si può essere irrisolti anche dopo aver scelto, sempre col magone di aver fatto la scelta più facile o la troppo difficile o la meno coraggiosa… “Il vero modo di essere felici è quello di procurare la felicità degli altri”, che non significa fare ciò che gli altri si aspettano da noi (“sceglierà di restare!”, “deve andare via, sennò qui si spegne come un cerino!”), ma uscire dalle proprie beghe, così tanto da desiderare solo che tutto sia giusto e bello, dovunque, in qualunque posto si faccia casa. Ma in quel territorio starci, se si vuole conoscerlo e cambiarlo, conoscerne i meccanismi e le persone, i desideri e i bisogni. Allora verrà da inventarsi un lavoro o da andarselo a cercare lontano, da giocare l’avventura nel proprio quartiere o in un quartiere dall’altra parte del mondo. Così sarà ciò che ho scelto e non ciò che mi è capitato.

 
“Cambiano cielo, non animo, quelli che attraversano il mare”, che è una frase di Orazio, ma va benissimo in questo pomeriggio di Odissea: peraltro è una frase che suona benissimo anche in wolof. Parole che i ragazzi stranieri ora mi spiegano con grande pazienza, perché le capisca bene. “Vedi che queste parole riguardano noi e riguardano te, allo stesso modo!”. Infatti imparo benissimo il motivo per cui ho scelto di restare.

foto di Agostino De Benedittis

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