Se questa è umanità

di Marco Gallicani

 

Nella Repubblica Somala degli anni ’60 non era raro che la media borghesia organizzasse feste e ricevimenti sul mare a base di pesce e buon vino, in un clima del tutto estraneo alle devastazioni degli ultimi anni. I loro figli viaggiavano e studiavano in Europa con un passaporto che oggi non vale neanche per accenderci un fuoco di bivacco. Oggi chi vuole (e può) scappare dalle suddette devastazioni verso il mondo pacifico ha una sola speranza, la tratta mediterranea. E i ricatti, i rapimenti, le violenze e gli stupri sono per loro semplicemente parte dell’inevitabile, oggi. 

È un mondo completamente cambiato, quasi irriconoscibile, e non sono passati che pochi decenni. 

Fa strano pensare che altrettanto potrebbe capitare a noi. Ma fa strano soprattutto vedere come sia cambiata la reazione di chi ha avuto la fortuna di nascere in un paese da cui non è più necessario scappare per sopravvivere. Nonostante da questo paese siano scappati alla ricerca di in un futuro dignitoso in molti, quasi 10milioni a cavallo tra ‘800 e ‘900 verso le Americhe, più di 3 milioni verso Francia, Belgio, Germania e Svizzera (ne han contati 24 milioni nei 100 anni tra 1876 e 1976). 

Per quelli che hanno i miei 40 anni può essere utile ricordare cosa accadde al tempo delle emigrazioni albanesi, quando nel 1991 in un solo giorno arrivarono a Brindisi quasi 27mila persone,migranti economici di un paese dalle prospettive inesistenti, accolti e sostenuti da una città intera che arrivò a svuotare i frigoriferi, a inventarsi tavolate nei cortili, a riempire scatole di coperte e giochi. “Nessuna paura, nessun fastidio, diffidenza zero. Solo aiuto a fratelli e sorelle in difficoltà” raccontò una giornalista. 

Nell’ottobre del 2017 a Bolzano un ragazzino curdo di 13 anni malato di distrofia muscolare è morto in strada, rifiutato assieme alla famiglia da una struttura di accoglienza comunale. Morto in strada. 

Nel ‘900 l’allargamento dei diritti fu un fenomeno epocale. La società occidentale scrisse dichiarazioni universali e accolse riforme legislative che ancora oggi sono il fondamento delle nostre democrazie. Ci inventammo percorsi di accoglienza, campagne di beneficenza globali, creammo la cooperazione internazionale e sul finire del secolo mettemmo addirittura in discussione il nostro stesso modello economico, stupiti che potesse creare tanta diseguaglianza. Molta della considerazione che abbiamo del nostro sistema viene da lì, è grazie a quei formidabili anni se ci consideriamo, con un po’ di egocentrismo, ma anche con qualche ragione, la parte più moderna e civile del globo. 

La nostra epoca sarà definita dalla questione dei migranti, e non perché il fenomeno abbia dimensioni eccezionali. Ormai non si sa più che statistica citare, tanto è stato scritto per dimostrare che ben prima che il Governo si accordasse con le milizie libiche (pagando chi imbarcava perché non imbarchi più) il numero dei migranti non è mai stato tale da mettere in crisi il sistema di accoglienza dell’ottavo paese più ricco del mondo, che nel 2016 ha speso per questo lo 0,22% del PIL (3,6 miliardi di euro) a fronte dell’1,4% speso per le Forze Armate. 

No, la nostra epoca sarà identificata con il fenomeno migratorio semplicemente perché sono arrivate all’evidenza pubblica le sue cause: le diseguaglianze così ampiamente denunciate dai nostri padri spirituali e dai missionari di ritorno dai sud del mondo, stanno ormai apertamente sfidando la tenuta sociale ed ambientale del pianeta nella sua globalità.  

A fronte di questa vera emergenza serve a poco discutere su quali siano i motivi che hanno spinto queste migliaia di persone a venire in Europa, se siano in cerca di un rifugio politico o di un futuro migliore, di un pezzo di terra su cui non cadano mine antiuomo o di un posto in cui ancora piove, ogni tanto. 

La questione al centro del dibattito è che il sistema democratico globale in cui viviamo ha deciso che ci sono persone che possono godere di tutti i diritti, compreso quello ad un turismo esotico privo di rischi, e altre che senza averne alcuna colpa sono destinate a raccogliere i metalli dalle miniere con le mani e non possono nemmeno sperare di andarsene. E questa cosa è semplicemente disumana. 

Non è soltanto questione di essere cristiani, nè tantomeno scout. Non è solo l’ingaggio di un pontefice che ci può guidare, nè la nostra promessa. Qui la questione è se abbiamo conservato (e coltivato?) la nostra umanità o se l’abbiamo seppellita sotto la fretta delle nostre giornate. E non è colpa della crisi: non sono le nostre difficoltà ad aver trasformato il dramma dei poveri da umanitario ad estetico. 

Per questo torna utile l’adagio di Primo Levi, perché dopo aver considerato “se questo è un uomo” è a noi stessi che dobbiamo rivolgere l’attenzione per capire se abbiamo conservato uno spiraglio di dignità, la nostra. 

Attraverso questo prisma dobbiamo guardare cosa stiamo diventando. E il plurale è d’obbligo perché la risposta può solo essere politica, collettiva. Solo insieme possiamo dedicare le giuste energie a smontare le bugie che i media riversano sulle teste delle nostre famiglie, dar voce al silenzio di chi lavora tanto e bene per “costruire ponti”, solo insieme possiamo pensare di cambiare questo sistema economico affamato di diseguaglianze, o di arginare il cambiamento climatico che abbiamo per troppo tempo ignorato.

Attraverso questo prisma risulta evidentemente falso il punto di vista che concentra tutta l’attenzione emotiva e intellettuale sulla “tratta” degli esseri umani. E che da lì fa discendere ogni possibile rielaborazione. È un assunto falso perché sin che al principio rinnega l’ovvio: i migranti sono persone come noi, non sono l’oggetto del nostro dibattito, non la scusa per poter urlare sui social. Persone che non hanno il diritto di viaggiare né per salvarsi la pelle né per andare dove la vita potrebbe essere migliore perché altre persone (noi) hanno deciso che il proprio stile di vita non può essere messo in discussione dalla loro presenza.  

Negare loro questo diritto è disumano e ha delle conseguenze, la tratta è la più evidente. Ma non la più preoccupante. 

La più terribile delle conseguenze è più sottile, è l’affermarsi dell’orrore come compagno normale delle nostre comparsate sui social, robusta presenza che ha vinto il suo volto, che non si deve più nascondere o provare vergogna. 

Questa rovesciamento totale delle scale di valori del ‘900, la messa in discussione del “principio umanitario assoluto, indiscutibile di salvare vite umane in pericolo, sottoposte a violenze, torture e miseria” è cominciato dalle parole, quelle dette e quelle taciute per convenienza, o paura. “[…] Siamo arrivati a dire che non ci possiamo permettere di salvare vite umane, etichettando come ideologia l’atto di salvare vite umane, un principio fondante della nostra stessa umanità. La miseria e la vergogna di questa rottura ci segnerà per molti anni a venire, come individui, come società, come esseri umani su una terra che ci illudiamo di possedere.” 

Ed è quindi da quelle che dobbiamo ripartire, con rinnovata e persino esasperata esposizione. Diceva Manzoni un bel po’ di tempo fa: “Il buon senso c’era ma se ne stava nascosto per paura del senso comune”. 

L’ha detta con approccio più scientifico la sociologa tedesca Elisabeth Noelle-Neumann descrivendo la teoria della “spirale del silenzio”: ci sono dei momenti in cui la confusione è tale che quelli che sanno di avere un’opinione comunemente condivisa la esprimono liberamente, mentre quanti ritengono di avere idee impopolari tendono ad auto censurarsi. 

La Regione (scout) Lombardia ha scritto: “Vogliamo essere strumento di cambiamento, non tanto (o solo) sul campo, ma (soprattutto) nella testa e nella cultura di chi ci sta a fianco. Vorremmo costruire all’interno del territorio regionale alcune opportunità strutturate in cui vivere il servizio e l’incontro con i migranti come strumento per riflettere sul tema e tornare a casa pronti per portare questo nuovo spirito di accoglienza e inclusione nel proprio territorio, sapendo che la vera frontiera e che il muro da abbattere sono quelli appena fuori casa. 

Ecco, questo serve, non solo dentro le mura delle nostre sedi, ma anche fuori, nella città degli uomini. 

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