Out door, l’ambiente fuori dalla porta

di Enrica Roccotiello, Stefano Venturini

Pattuglia nazionale branca L/C

 

Scriviamo questo articolo mentre siamo costretti in casa, per le misure di contenimento del Covid-19. Non possiamo non chiederci che valore possa avere per i bambini e per noi insieme a loro, in questo periodo, il fuori. È uno spazio fisico? È un sogno? Una paura? Un luogo interiore? Una sede o una tana virtuale? Per contrasto, emerge ancora più evidente da una parte l’esigenza fisiologica del contatto con la natura, dall’altra la difficoltà frequente (oggi per divieto) di far vivere ai bambini un out door, anche immediatamente fuori dalla porta di casa.

Natura e mondo

I bambini ci dicono quanto adorano stare all’aperto, ma anche che in fondo le occasioni per farlo sono davvero poche: la maggior parte di loro non riesce a vivere l’ambiente naturale o semplicemente il “fuori”, come quotidianità. Proprio per questo oggi l’educazione all’aria aperta costituisce per certi versi un’emergenza che rischia di privare i bambini di alcuni tipi di esperienze e, di conseguenza, di competenze che sempre meno vengono allenate.

L’esperienza “fuori” allora deve essere cercata prima di tutto in una dimensione di continuità, nel quotidiano che abbiamo immediatamente a disposizione. Non possiamo più permetterci di considerare il bosco, la montagna, il mare come gli unici ambienti in cui proporre esperienze educative: non li viviamo con sufficiente frequenza! Senza rinunciare in alcun modo a quegli ambienti, siamo però chiamati a far vivere ai bambini il mondo che abitano, l’ambiente che incontrano semplicemente fuori dalla loro casa. Out door vuol dire proprio questo: fuori dalla porta. Questo ambiente diventa di apprendimento perché il bambino fa esperienze concrete, in contatto diretto con le cose ed oggi è quello consente continuità di maturazione di competenze.


Ricollocarsi come adulti

Spesso pensiamo che valga la pena far fare cose che siano immediatamente utili e spendibili. Esistono invece esperienze che appaiono inutili, ma che sono trasformative” perché hanno senso soprattutto per chi le sta facendo e non per chi le sta pensando e proponendo, cioè per gli educatori. Per gli adulti pensare in questo modo è più faticoso perché è rassicurante proporre un’attività che abbia una sequenzialità e dei passaggi su cui esistono aspettative, perché si ha maggior controllo. D’altra parte, gli adulti hanno l’abitudine di essere competenti quando fanno qualcosa, cioè quando propongono qualcosa e possono verificarlo.

 Dovremmo invece cercare di imparare a fare domande aperte, domande cioè che precisano l’ambito all’interno del quale intendiamo muoverci, ma che contemporaneamente consentono un margine di interpretabilità alto: in tal modo diventano inclusive. Dovremmo poi provare a stare a guardare seriamente quello che i bambini fanno osservando e documentando, per dare valore a queste esperienze e poi restituirle loro, senza la preoccupazione di valutare.

Le attività fuori, all’aperto in questo sono facilitanti! Lì il contesto è più flessibile, la cornice è più elastica se riusciamo a resistere alla tentazione di riportare pedissequamente all’esterno modi e schemi che adottiamo quando facciamo attività all’interno.


Imparare cosa serve

Ma cosa può rendere l’esperienza fuori significativa e diversa da ogni esperienza dentro? Replicando semplicemente all’aperto le stesse cose che di solito facciamo nelle nostre tane e sedi perderemmo tutte le potenzialità dell’ambiente esterno. Abbiamo bisogno di cose nuove: costruiamo una cornice elastica dove far vivere esperienze in libertà, con margini di autonomia. Consegniamo loro tempi non strutturati, in cui poter sperimentare competenze di ricerca che facciano nascere domande a cui rispondere insieme.

Questo si può realizzare in città, in campagna, nel luogo che si abita quotidianamente se costruiamo con i bambini esperienze di esplorazione e di scoperta. Portiamo i nostri cerchi e i nostri branchi a toccare, a vedere, a sentire, ciò che c’è fuori dalle tane e le sedi. Non solo nelle cacce e nei voli una volta al mese, non solo alla vacanze di branco e di cerchio, ma nel quotidiano.

Sotto una stessa legge

Specialmente ora che «siamo davvero tutti sotto una stessa legge», come disse Bagheera alla roccia della pace, e che la paura si è messa una “Corona” a noi capi è chiesto di leggere i segni dei tempi per prenderci cura anche di questo “fuori” dei nostri bambini. Proviamo a condividere con loro modalità per cogliere quanto li circonda, anche nell’ambiente della propria casa. Quella cosa che non avevano mai notato in salotto o sul terrazzo; i suoni che magari con il traffico dal loro balcone non si riesce a sentire, i colori del tramonto che non hanno mai avuto tempo di gustare, i profumi della primavera che non si ferma davanti a un virus.
Ancora una volta forse non ci viene chiesto di strutturare cose da fare, ma di proporre ai bambini
prospettive nuove sulle cose, perché possano poi, ciascuno secondo il proprio sguardo originale, interpretare, raccontare e dare un senso alla propria esperienza. In un dialogo continuo tra il fuori e il dentro, attraverso il quale maturare competenze non soltanto fisiche, ma anche emotive e sociali che permettono muoversi nel mondo, qualunque essa sia, da esploratori curiosi e desiderosi di incontri.

[Foto di Nicola Cavallotti]

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