Come in un puzzle

di Valeria Leone e Vincenzo Pipitone

Il tirocinante, il capo Unità e persino i Presidenti, Capo Guida e Capo Scout. Tutti, un giorno più o meno lontano, siamo stati accolti in Comunità capi, con toni, modalità e stili differenti ma con uno stesso intento: entrare a far parte del cuore del pensiero educativo del nostro gruppo e dare il nostro contributo in virtù della nostra scelta di servizio. L’ingresso in Comunità capi è un momento importante e prezioso, per chi viene accolto e per chi accoglie: è una Comunità che si rinnova e si scopre capace di fare spazio alla voce, ai pensieri e allo sguardo di qualcun altro, custodendo però la propria storia. Ma cosa intendiamo con “accoglienza in Comunità capi”? È uno stile, è un attimo o un atteggiamento costante?

La Comunità capi è inevitabilmente una storia di relazioni, una storia che stabilisce legami tra donne e uomini diversi per età, condizione culturale, situazione economica ed esperienze vissute. Tali relazioni spesso sfociano in rapporti amicali, talvolta sentimentali, altre volte restano relazioni di condivisione di percorsi educativi e di vita associativa. Ogni componente della Comunità capi abita la propria soggettività: ogni capo ha il suo progetto, le sue pulsioni, coltiva la sua speranza nel futuro e nei sogni, ha le sue idee sul mondo; in altri termini, ha una propria identità. E la Comunità capi diventa dunque un luogo di incontro tra le diverse identità. Un incontro arricchente certo, ma non sempre facile.

Chi per primo lanciò la sfida delle Comunità capi (tra il 1969 e il 1974) probabilmente aveva in mente che, così come nel quotidiano ognuno di noi realizza se stesso nella relazione con l’altro, sentendo la necessità di sentirsi parte di una Comunità, anche nel grande gioco dello scautismo essere una tessera del puzzle potesse contribuire alla costruzione della propria identità e alla realizzazione del proprio essere capo.

L’identità è qualcosa che ci viene riconosciuta e sorge dal riconoscimento altrui. Sono quel che sono perché qualcuno mi riconosce: sta quindi nella relazione il fondamento della nostra identità. Se provassimo a tradurre nel nostro mondo questa idea, potremmo dire che essere capi significa condividere pensieri e progetti con gli altri membri della Comunità capi (contribuendo così alla corresponsabilità educativa), consentendo agli altri di aiutarci a riguardare ai nostri fallimenti e a ricalibrare i prossimi obiettivi.

Un lavoro che forse siamo abituati a fare in staff, ma che invece va vissuto a pieno in Comunità capi: è infatti la Comunità capi il cuore pulsante del pensiero educativo – da essa nascono, tra l’altro, le idee di riferimento e le Strategie nazionali di intervento – ed è ancora la Comunità capi che dà mandato ai suoi membri, per comodità divisi in staff, a realizzare il Progetto educativo.

Ecco allora come immaginiamo la Comunità capi: persone che condividono la Promessa, la Legge e il Patto associativo; persone capaci di relazioni autentiche e fraterne, in grado di contribuire alla crescita dell’identità propria e altrui e di sostenersi nella vocazione. Persone capaci di accogliersi: nelle fragilità, nei terremoti, nelle difficoltà e nella vitalità. Persone capaci di accogliere le paure, i successi e le assenze degli altri. Una Comunità capi caritatevole, dal volto umano e cristiano, capace di far sentire gli altri a proprio agio, sempre. O, quanto meno, nella maggior parte delle situazioni.

Accogliere, dal latino ad-cum-legere: “raccogliere insieme verso”, facendoci forza vicendevolmente, camminando accanto nella condivisione di strade e percorsi. Ecco perché anche la Comunità capi ha la necessità di fare Strada: perché abbassa le nostre difese, ci spoglia e ci consente di stare più vicini, di fare discernimento.

Se questo è lo stile delle relazioni autentiche delle Comunità capi, allora riusciremo ad accogliere chi riesce a liberare poco tempo e, quel poco, metterlo a disposizione del gruppo; riusciremo a saper ascoltare da un lato la freschezza del giovane capo, dall’altro l’esperienza dell’anziano. Riusciremo ad ascoltare l’altro sospendendo il nostro giudizio, mettendoci in un ascolto silenzioso che ci consenta di fermare i nostri pensieri e le nostre valutazioni per un attimo e semplicemente ascoltare, accogliendo il punto di vista dell’altro come un dono. Anche quando è difficile, anche quando non lo condivido, anche quando vorrei dire immediatamente la mia.

Riusciremo ad aver cura gli uni degli altri, a sorriderci alla fine di una giornata di servizio insieme, a chiederci scusa dopo una brutta risposta, a dirci quando non ce la facciamo più, a confidarci cosa ci ha ferito, a dirci “è stata una cosa ben fatta”, a chiederci “com’è andata la giornata?” alla sera prima di una riunione e ci ritroveremo in uno sguardo, in una carezza, in una pacca sulla spalla, in un bacio, in un abbraccio.

La Comunità capi è come un puzzle: occorrono tutti i pezzi per far sì che il disegno sia completo e occorre che ciascun pezzo sia al proprio posto per aiutare gli altri a completare il disegno. Ciascuno di noi ha un posto, vicino agli altri, un posto pensato per noi da chi ha quel Disegno nel cuore. Un posto per il quale, un giorno più o meno lontano, abbiamo detto sì, magari proprio dopo la Partenza. Un posto che siamo chiamati ad abitare con lo stile dell’Amore, quell’Amore che ci ha scelti per contribuire – anche con il nostro servizio in Comunità capi – a realizzare il Regno fin da oggi, con i bambini e i ragazzi che ci sono affidati. E per farlo, ci ha pensati gli uni accanto agli altri, stretti come in un puzzle ma ciascuno con i propri preziosi confini di identità.

La parola al tirocinante

Come da ragazzo, quando ho varcato la soglia della sede per la prima volta, ho avvertito una ventata pervadermi il corpo. Mi sono sentito investito da una sensazione familiare, poi tutto si è disteso e, dalle prime parole di chi era stato mio capo reparto, mi sono ritrovato a camminare per i corridoi che sono tornato a chiamare “casa”. È iniziato così il mio bentornato in famiglia, il mio ingresso in Comunità capi.

Oggi nel silenzio di quelle stanze cammino a passo lento, entro di stanza in stanza, di branca in branca. Ascolto le voci dei fratelli e sorelle che mi donano la loro testimonianza: un momento che vivo con i brividi di quegli istanti che si mischiano a ricordi del passato, intrecciati ai racconti di chi a un certo punto della vita ha detto il suo Eccomi! Ascolto racconti di comunità, momenti difficili superati con Fede, la storia di una scelta di disobbedienza civile e resistenza, e di come essere scout in Cristo sia una scelta di grande coraggio. Dal mio ingresso ho ricevuto tanti doni, alcuni materiali, altri, più importanti, sotto forma di parole dal grande valore morale e umano. E una preghiera, quella del Capo, che d’ora in avanti mi sproni a vederlo, amarlo e servirlo nei fratelli.

Daniele

 

 

 

«Tu non sei come me, tu sei diverso

Ma non sentirti perso

Anch’io sono diverso, siamo in due

Se metto le mie mani con le tue

Certe cose so fare io, e altre tu

E insieme sappiamo fare anche di più

Tu non sei come me, son fortunato

Davvero ti son grato

Perché non siamo uguali

Vuol dire che tutti e due siamo speciali».

Bruno Tognolini

[Foto di Rachele Fede]

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