Ci vuole tempo

di Valeria Leone

 

Ci vuole ancora un po’ di tempo, ho detto alla mia bimba che mi ha chiesto quando andiamo in montagna. Quando, mamma, domani? No, tesoro. Mamma e papà devono lavorare ancora un po’ di giorni e poi partiamo. Quando, mamma, adesso?

Ci vuole tempo per capire che ci vuole tempo. In amore e in educazione, ammesso che le due cose possano andare separate. Ma cos’è poi il tempo? Cos’è davvero quel tempo che ci vuole?

È l’amore che si cela in un gesto, il più piccolo. È il tempo di una carezza, uno sguardo posato sull’altro, una pacca sulla spalla, uno scambio di battute. È il tempo di una chiacchierata intorno al fuoco, di due parole su per quella salita che non finisce mai e poi dai, facciamo una pausa per prendere fiato. È una storia che racconti sottovoce, mentre attraversiamo il bosco tutti insieme. È un “come va con il lavoro?”, davanti alla sede prima della riunione di Comunità Capi. Sono le parole che mi dici per sfogarti alla fine della giornata al campo, mentre i ragazzi sono a letto. E ti ascolto, come se non importasse null’altro in quel momento.

“È il tempo che hai perduto per la tua rosa…”, questa l’abbiamo sentita fin troppe volte. E non mi piace pensare al tempo della cura come un “tempo perduto”. Mi piace pensarlo a un tempo svuotato e riempito nuovamente, tempo riorganizzato, tempo risignificato, tempo che si fa dono e che è dono, innanzitutto per noi. Per noi che possiamo essere dono per gli altri.

È il tempo di andare a tempo, è il tempo di capire qual è il tempo di chi ho davanti, di armonizzare i passi sulla strada, provando a rispettare il ritmo di ciascuno; è un tempo che sa di speranza, la speranza di un bambino che dice al Branco e al Cerchio il suo primo Eccomi e che sogniamo grande, domani, a dire un Eccomi un po’ più grande, un Eccomi per la vita.

È un tempo che ci è affidato, quello della Strada dei nostri bambini e poi ragazzi, un tempo di cui dobbiamo avere cura e la cui unica misura è l’Amore. E vanno bene gli obiettivi, i programmi di unità, i Progetti Educativi e tutto il resto, ma nell’educazione sogno l’Amore. Quell’Amore che è fatto di tempo e non di quel tempo che ci lamentiamo di non avere, non di quel tempo che l’Associazione “si prende”, non di quel tempo del “non ho una sera libera”, non di quel tempo che usiamo tante volte come scusa o come rifugio o come alibi.

L’educazione si nutre di un tempo piccolo, infimo, lento, un tempo benevolo e paziente, un tempo che ci aiuta a guardare con calma, a osservare con attenzione i bambini e i ragazzi che ci sono affidati e a non imprigionarli in una prima impressione, in un totem, in un “sappiamo che è fatto così”. Perché sì, lo sappiamo, ma mi piace pensare che come educatori ci manteniamo sempre la possibilità di lasciarci stupire da ciò che può crescere spontaneamente, come faceva San Francesco, che chiedeva che nel convento restasse sempre una parte di orto non coltivata, così da lasciar crescere le erbe selvatiche, così che quanti le avessero ammirate potessero pensare a Dio, vero autore di quella Bellezza.

Di quanti orti non coltivati sono fatte le nostre storie da capo? Di quante erbe selvatiche si è riempito il nostro cestino? Quante volte abbiamo indossato i panni del contadino, che ripone ogni speranza nel seme che getta nella terra e che intorno a quel seme fa ruotare i suoi giorni e le sue notti, innaffiando, osservando, aspettando?

Aspettare. Vorrei che aspettare fosse uno dei verbi del nostro vocabolario da educatori. Ma non di quell’attesa del “Ma sì, qualcosa succederà”, di quell’attesa colma di speranza piuttosto. Quell’attesa di chi sa che l’Amore ha bisogno di tempo. Ancora una volta. Di chi sa che l’Amore sono i nostri occhi nei loro occhi, una mano tesa, ma di chi sa anche che ci vuole un’altra mano ad afferrare la nostra, un altro paio di occhi a fissare i nostri. Perché ci educhiamo insieme e i bambini e i ragazzi hanno il tempo, il diritto e il dovere di farlo da soli. Lo crede l’Agesci, che pone al centro del proprio agire l’autoeducazione e lo crediamo noi, dobbiamo crederlo, con costanza, amore e pazienza. Quella del contadino e del suo seme. O del pastore e le sue pecore, anzi, del pastore e di quella pecora.

Di quel Pastore che ha scelto noi, che siamo quella pecora a nostra volta, per custodire il suo Giardino e che ci chiede di amare senza misura, con pazienza e speranza, proprio quei semi, proprio quelle pecore.

Mi piacerebbe che ogni tanto le nostre verifiche cambiassero tono, che vanno bene gli obiettivi e tutto il resto, ma mi piacerebbe ci chiedessimo quanta pazienza ho avuto oggi? Quanto sono stato capace di pormi in ascolto? Di pormi in attesa davanti ai bambini e ai ragazzi, senza fare un primo ingombrantissimo passo? Di quanto amore ho riempito i miei lanci, il mio fare insieme, il mio mangiare con loro, il mio arrabbiarmi, le mie cerimonie e i miei riti?

Mi piacerebbe, ogni tanto, ci fermassimo di staff e ci dicessimo ad alta voce i nomi dei bambini e dei ragazzi, uno per uno, e ci riempissimo gli occhi, la mente e il cuore dei ricordi, perché ognuno di loro, almeno una volta, dall’inizio dell’anno ci ha stupiti. Almeno una volta, su quel terreno è spuntata un’erba selvatica, perché ne sono certa, il Signore non lascia i terreni spogli. Del resto, basta guardare come veste i gigli del campo.

 

[foto di Camilla Lupatelli]

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